La sfida quotidiana di affrontare al meglio – non solo per la “sopravvivenza” – ogni giornata è ardua; lo è per chi lavora a tempo pieno o è freelance, in Italia come nella progressista Olanda. Per gli uomini, certo, ma un un po’ di più per le donne, soprattutto se, come nel mio caso, non c’è una rete familiare a portata di mano. Oggi più che mai, però, si può rilanciare sulla posta in gioco.
Da un po’ di tempo, chi si interessa di temi di parità facilmente si imbatte nel concetto di work-life effectiveness, in certo modo un’evoluzione rispetto alla semplice ricerca del bilanciamento tra le due componenti, da mettere in atto come fosse una vera strategia di affari. L’obiettivo è puntare a una gestione degli impegni (professionali) e delle necessità (personali) perfezionata e di lungo termine. Per fare un esempio concreto, un primo passo è il negoziare il tempo del lavoro, insistendo magari su pratiche di smart working, alla luce dei propri bisogni, che siano andare a prendere i figli a scuola, seguire un corso, o pianificare meglio le “attività” sociale della propria vita. Il beneficio derivante da questa strategia, raccontato anche i numeri, ricade su tutte le parti interessate: una programmazione “efficace” si traduce in maggiore produttività del dipendente, più attaccamento al proprio incarico e alti livelli di soddisfazione. Di conseguenza porta anche a risultati positivi duraturi e solidi per l’azienda stessa.
D’altra parte ne parlava già cinque anni fa l’Harvard Business Review: “Il work-life balance non è il punto“. A riguardo venivano citati i ricercatori Jeffrey Greenhaus and Gary Powell, secondo i quali era necessario espandere questo concetto di equilibrio, perché non sembrasse una suddivisione fra ambiti diversi, e si andasse invece verso un’alleanza fra vita professionalee vita personale.
Anche se quasi certamente non è dovuta a una programmazione così puntuale, in Olanda una certa work-life effectiveness la si vede a occhio nudo e non riguarda solo le donne – non mi saprei spiegare se no i tanti papà che vedo partecipare alle attività scolastiche dei figli più piccoli o occuparsi della spesa le mattine in settimana. Certo, qui il tutto è facilitato da possibilità occupazionali buone, un’accettazione cultura diversa del lavoro “da” e “di” casa e il modo di intendere il concetto di flessibilità – cardine di questa gestione efficace dei tempi vita-lavoro . Ed è sicuramente facilitato pure da quanto sia poco acuito lo stigma sociale se si lavora un po’ meno o si decide di lasciare la routine e, per esempio, viaggiare per qualche mese. A me continua a colpire ancora oggi il tono dei commenti a notizie di questo tipo, specialmente perché espressi da un popolo noto per la schiettezza delle esternazioni: “Wow! Che interessante!”
A livello anagrafico, la work-life effectiveness in un po’ tutto il mondo occidentale sembra piacere soprattutto alle generazioni più giovani. Le Millennials, che si riconoscono prima di tutto in una molteplicità di definizioni (mamme, compagne, professioniste, intellettuali, amiche, viaggiatrici,…), sembrano essere naturalmente orientate a questo modello. In generale infatti, appaiono meno spaventate dal cambiamento e più pronte a ridisegnare il loro percorso di carriera per seguire interessi non solo professionali – dal dedicarsi a passioni creative all’avere figli. Forse questo succede proprio perché è sempre meno taboo oggi aspirare e attivarsi per avere il controllo dei propri tempi.
Coscienza dei propri desideri, pianificazione strategica su misura e audacia nel chiedere al capo orari di lavoro diversi e al partner di collaborare nella gestione degli spazi personali: l’empowerment femminile oggi può passare anche da qui.