Storia di Louisa May Alcott, la penna che scrisse 150 anni fa “Piccole donne”

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Una ragazza scrive frenetica su fogli di carta. Indossa un vecchio spolverino di lana nera sul quale pulisce di tanto in tanto il pennino. Sul capo un berretto ornato da un bel nastro rosso che le trattiene i lunghi capelli. Come scrivania usa una vecchia cucina di ferro che ha sistemato in soffitta. È immersa nel vortice della scrittura, una passione che la assorbe in maniera totalizzante. Scrive, scrive senza sosta insensibile alla fame, alle preoccupazioni, al cattivo tempo, immersa nel suo mondo immaginario e meraviglioso. I suoi occhi sono chini sui fogli, ma sprizzano bagliori di felicità. È la penna di Louisa May Alcott a dipingere così l’indimenticabile Jo March, una delle protagoniste del suo capolavoro “Piccole Donne” che in questi giorni compie 150 anni. Un libro che a distanza di un secolo e mezzo dalla sua prima pubblicazione continua a conquistare generazioni di lettrici in tutto il mondo. Eppure Louisa May Alcott, la sua autrice, non lo voleva scrivere. Quando l’editore Thomas Niles le aveva chiesto di lavorare a un libro per ragazze, Alcott all’inizio non fu per niente entusiasta. «Non mi piace questo genere di cose» aveva scritto nel suo diario. Lei che amava scrivere di passioni, di sangue e tempeste interiori. Provò a cimentarsi lo stesso ispirandosi alla storia della sua famiglia e alle sue tre sorelle. In una manciata di settimane Piccole Donne era pronto. Le quattro ragazze March Meg, Jo, Beth ed Amy contenevano ognuna il riverbero delle ragazze Alcott: Anne, Elisabeth, May e Louisa. Ed è questo forse uno dei segreti della fortuna di Piccole Donne. Parlare di una sorellanza reale che l’autrice aveva sperimentato sulla propria pelle e trasfuso poi nella sua opera letteraria più celebre.

Jo March, la ragazza audace, sognatrice e ribelle che nel bestseller senza tempo scrive senza sosta è lei, Louisa Alcott. La sua è una storia che vale la pena ripercorrere. Il padre era il filosofo Bronson Alcott e la madre l’attivista e assistente sociale Abigail May. Alcott cresce in un ambiente culturale fervidissimo. La sua è una famiglia sul lastrico, povera di mezzi, ma ricca di sapere. Sono i genitori a provvedere alla sua istruzione e a quelle delle altre tre figlie con l’aiuto di precettori estemporanei d’eccezione come la scrittrice Margaret Fuller o il filosofo Henry David Thoreau, amici di famiglia. Sin da piccola Alcott coltiva il desiderio di risollevarsi dall’indigenza terribile in cui è precipitata.

È lei che diventa presto la capofamiglia. Lavora come lavandaia, insegnante, dama di compagnia, sarta. In contemporanea cerca di avviare la sua carriera letteraria.
Alcott fatica tanto, ma non si arrende mai.

È costretta a capire in fretta quanto il mondo sia ostile alle donne. A 18 anni viene molestata dalll’avvocato James Richardson che la assume come dama di compagnia della sorella. Alcott lo respinge e Richardson si vendica. La destina ai lavori più pesanti. Quelli che facevano gli uomini. Trasportare neve spalata, legna spaccata, lucidare gli stivali. Dopo il secondo mese, nonostante abbia bisogno di lavorare, si arrende e lascia l’impiego. Trasforma la rabbia che le provoca la brutta esperienza in furore creativo. Scrive di questo suo momento #metoo e presenta il racconto all’amico di famiglia l’editore James Field che la scoraggia. Le dice che deve dedicarsi all’insegnamento, non è portata per la scrittura. È forse proprio questo giudizio che pungola Alcott, che accende la sua determinazione. Non sì dà per vinta e continua a scrivere. Si firma con uno pseudonimo e crea quelli che oggi possono essere definiti thriller. Inganni, spie, assassini, sensualità. Stephen King, il maestro del brivido, è arrivata a definirla una delle massime scrittrici di gialli che sia mai esistita.

Pubblica in varie riviste, dà alle stampe un libro, “Hospital Sketches”,in cui raccoglie le sue memorie di infermiera durante la Guerra Civile americana, il suo primo bestseller. Ma è con Piccole Donne che Alcott raggiunge il successo che le permette di esaudire il suo più grande desiderio. Vivere di scrittura e poter mantenere la sua famiglia. Lo fa grazie a quegli archetipi in cui molte di noi si sono riconosciute.

Meg, Jo, Amy e Beth March vivono al tempo della Guerra Civile e sono alle prese con i dilemmi interiori della terra di mezzo: l’adolescenza. Il crinale temporale scandito da inquietudini e vivacità che separa l’infanzia dall’età adulta. Le quattro ragazze del New England crescono e si scontrano con limiti e imposizioni. Sappiamo tutti come i sogni delle ragazze man mano che diventano donne trovino degli ostacoli difficili da superare. E forse era questo che Alcott voleva evidenziare. Far capire che le aspirazioni, le ambizioni femminili venivano schiacciate dalla morale soffocante dell’epoca e da aspettative sociali che non davano scampo. Non era facile ribellarsi. La scrittrice americana era sensibile a questi temi.

Femminista, suffragista, si è sempre battuta per i diritti delle donne e per la cessazione della schiavitù. È stata tra le prime a scrivere un racconto che parlava della storia d’amore tra una donna bianca e un ex schiavo nero. Viaggiava da sola, scelse di non sposarsi e come ripeteva spesso preferiva essere una zitella felice che pagaiava sulla sua canoa. Una donna e una scrittrice capace di ispirare a distanza di secoli le penne di Margaret Atwood, Elena Ferrante, J.K. Rowling, persino la cantante Patty Smith.

Merito di quelle quattro ragazze che cercano il loro posto nel mondo come fanno tutte le bambine e le adolescenti. Ma è sbagliato pensare che sia solo un libro per ragazze. Piccole Donne ha un respiro universale che valica il genere. È merito di Jo la protagonista che si staglia gigante nel mondo della letteratura.

La Jo March della mia vita è mia zia. Lei mi aveva regalato “Piccole Donne”. Era un’instancabile lettrice. Mi ha insegnato la passione per la lettura. Era una donna indipendente e libera. Anticonformista e ribelle. Era come Jo. E io volevo essere come lei. La più irriverente delle sorelle March. Combattiva, indipendente, fiera di poter avere un lavoro e guadagnare. Coraggiosa quando si taglia i capelli per poter aiutare la madre che deve raggiungere il padre ferito in guerra. Libera di voler vivere con la stessa libertà di un uomo. Una figura sovversiva e vera, umana. Non importa che Alcott smorzi nei libri che seguirono a “Piccole Donne” (“Piccole Donne Crescono, I ragazzi di Jo, Piccoli Uomini) il suo spirito avventuroso. È la pecora nera, l’outsider che sfida il mondo. È la ragazza che ha reso meno sole tutte le bambine che si percepivano “diverse”. Una formidabile apripista. In lei c’è lo spirito autentico di Alcott che l’ha creata e voleva offrire alle donne con il suo libro opzioni che non fossero solamente il matrimonio e dei figli.

Come la stessa Jo, Piccole Donne non è un libro radicale ma ribelle. Non ha l’intento di cambiare il mondo, ma ha saputo ritagliare uno spazio per le donne forti e indipendenti che si muovono all’interno delle strutture patriarcali e hanno quella voglia irrefrenabile di cambiarle.