“Translating war into peace”: una colomba, sospesa nel vuoto, tra utopia e ironia, toglie la “a” alla parola war per portarla verso la parola peace. Si tratta di un’opera di Armando Milani, un poster realizzato per le Nazioni Unite nel 2003 e divenuto ormai un’icona per gli amanti del graphic design. “Ciò che amo della grafica è la sua immediatezza, il modo diretto in cui porta un significato”, spiega Milani, uno dei maestri di questa forma di comunicazione visiva, che ha fatto dell’immediatezza la sua cifra stilistica, e del contenuto etico il supporto di ogni progetto artistico.
“Ubuntu – I am because we are” è il titolo della nuova mostra da lui curata, ospitata dal Muba di Milano in questi giorni, fino al 28 ottobre, con il supporto della Società Umanitaria e il patrocinio del Consolato Generale del Sudafrica, dell’Agi e dell’Aiap. 150 manifesti attorno a un unico tema: ubuntu. Una parola sudafricana, intraducibile nella nostra lingua. Legata al concetto di condivisione, solidarietà, rispetto, realizzazione in positivo di tutto ciò che possiamo ricondurre a una qualche idea di umanità. L’artista spiega la parola con un aneddoto: alcuni bambini di una tribù sudafricana furono invitati da un’antropologa a impadronirsi di un cestino pieno di frutta e dolciumi. “Il primo che lo raggiunge se lo tiene”, l’unica regola del gioco. Pare che i bambini si siano presi per mano e abbiano raggiunto tutti insieme la cesta, spiegando il loro gesto con queste parole: “Ubuntu: come può uno di noi essere felice se tutti gli altri sono tristi”? Bella domanda. E incredibile parola, questa ubuntu, se in così poche lettere riesce a racchiudere così tanto significato.
Indagando tutte le sfaccettature che stanno dietro, dentro e attorno a ubuntu, si percorre il portico della rotonda della Besana, osservando la bellezza e la densità di questi 150 manifesti. Divisi in tre sezioni: 50 sono stati realizzati da designer che hanno risposto all’appello di Milani, 50 dagli studenti del maestro, divisi tra Italia e Stati Uniti, e 50 da bambini di tutto il mondo. Singolare notare che un nome italiano accompagna un manifesto realizzato negli USA e un nome non italiano, al contrario, è sotto a un manifesto realizzato in Italia. Un effetto della globalizzazione, certo, ma anche un sassolino scagliato contro i muri che vorrebbero segregare ognuno a casa propria in questo contraddittorio momento storico. Spiega Milani: “Mi piace pensare che gli artisti di questa mostra hanno un’età che varia dai 5 agli 85 anni, e provengono da diverse culture ed estrazione. Per affrontare questo tema vi sono due modalità: la denuncia oppure messaggi di speranza. Nei lavori che ho ricevuto, in generale ha preso il sopravvento la speranza, e ne sono felice”.
In effetti il filo conduttore è palesemente uno: la positività. Ubuntu sembra essere un termine che relega il tema dell’oppresso a un ruolo marginale e secondario, per esplodere invece in tutta la creatività di un’azione immaginata, sognata, desiderata, colorata. E se è vero che l’immaginazione non è una fuga della realtà, ma il principio della realizzazione di qualcosa di nuovo, allora si capisce l’importanza di una mostra come questa, spiegata dal direttore artistico del Muba, Francesco Dondina: “Un manifesto non può cambiare il mondo, ma può aprire nuovi orizzonti nell’immaginazione”. E se c’è un luogo in cui immaginazione e ubuntu si fondono perfettamente, è nelle strofe di Imagine di John Lennon. Lui e Nelson Mandela, ambasciatori universali di pace, sono faccia a faccia nel manifesto di apertura del percorso della mostra, e le loro parole ci ricordano che possiamo cambiare il mondo e renderlo un posto migliore. Basta cominciare a immaginare come può essere.