Che cosa impedisce alle donne di dedicarsi alle scienze, alla tecnologia, alla matematica, all’ingegneria (le famose STEM)? Ci diciamo – e quindi indaghiamo in questa direzione, e quindi troviamo conferme e ci convinciamo sempre di più – che sono i pregiudizi culturali a fare da limite alla nostra immaginazione: sin da bambini, sulle copertine dei libri e dei giocattoli i maschi sono scienziati e le femmine ballerine. Così in TV, nei romanzi, nei fumetti, nei libri di storia, e infine nei meccanismi di selezione di queste professioni, nella valutazione dei decisori, nei sistemi di retribuzione. E se ci fosse anche altro? Un “altro” talmente enorme da restare, invisibile, sullo sfondo?
Partiamo da un esempio concreto: per attrarre le donne nelle materie STEM si usano i role model: donne che “ce l’hanno fatta” e dimostrano che è possibile. Ma qual è il modello di queste role model? Dentro quale schema di regole e definizioni si sono collocate e hanno avuto successo? E’ davvero possibile esprimere un proprio modello di ruolo all’interno di uno schema già dato?
Copio questa riflessione da un articolo del 1983 dell’editrice americana Linda Gardiner, che si domandava se le donne potessero realmente contribuire alla filosofia. Una volta stabilita attraverso valori, metodi e auto definizioni, questa disciplina, come tutte, tende infatti a preservarsi attraverso l’esclusione di “gruppi esterni” (outgroup), che stravolgerebbero – mettendo profondamente in discussione con sguardi divergenti, e quindi in qualche modo sporcando – i suoi assunti di base. Come sappiamo, le basi della filosofia sono state poste da uomini bianchi occidentali. Così come la filosofia, anche le materie STEM sono costruzione e rappresentazione del pensiero di un’elite bianca maschile altamente educata, che da millenni ha stabilito alcuni principi universali – tra cui il razionalismo – entro cui il resto del mondo dovrebbe muoversi (mentre però gli viene anche chiesto di “portare la propria diversità”).
Le donne che arrivano davanti alla casa delle STEM trovano questo perimetro. Qui la specificità femminile non rientra nello standard di quelli che Gardiner definisce “gli assunti universali”:
Potremmo domandarci continuamente: noi donne dove siamo in tutto questo?
Ma il tema è complesso, perché ci hanno insegnato a internalizzare e a credere agli assunti universali così completamente che non siamo in grado di distinguere la specificità del nostro pensiero, delle nostre sensazioni e delle nostre esperienze come donne – lo stesso si può dire per qualsiasi altro “outgroup”.
La mia ipotesi è che molte donne scelgano di non dedicarsi alle materie STEM perché sentono che non c’è spazio per interpretarle a modo loro, per portare il proprio reale contributo: anche se questa ragione è istintiva e non è consapevole, il rifiuto è reale.
Le STEM sono delle discipline che, per restare tali, si “difenderanno” ancora e sempre da tutto ciò che ne minaccia le regole e gli assunti di base: gli outgroup come le donne inevitabilmente faranno proprio questo – e qui starà anche il loro immenso valore aggiunto.
Non è colpa di nessuno, ma è utile esserne consapevoli: di ogni disciplina un giorno qualcuno ha tracciato dei confini perché potesse esistere, inserendovi così la propria visione del mondo, che da quel momento viene considerata un assunto universale e quindi definisce tutto il resto. Che cosa fare, quindi, se questi confini diventano dei limiti, delle porte chiuse?