Lo scorso anno Lego ha creato un set che riproduce alcune donne scienziate della Nasa. Da una parte iniziative come questa suscitano clamore e interesse come delle peculiarità e ancora dobbiamo sottolineare che si tratta di scienziate, mentre la scienza tout court continua a essere appannaggio maschile, incorniciato dal dibattito squisitamente italiano sulla femminilizzazione dei nomi delle professioni. D’altro canto, però, il CNI ci fa sapere che nel 2016 le donne laureate in ingegneria sono quasi il 31% del totale, mentre solo nel 2000 la quota era del 16,6%. Un bel salto quantico. Sicuramente sono molti i fattori che stanno contribuendo a questa crescita: da quelli culturali, che passano senz’altro anche per il gioco come nel caso del Lego, a quelli educativi, con una presenza sempre maggiore nelle scuole di percorsi di orientamento fuori dagli stereotipi.
Manuela Appendino è tra quelle persone che hanno particolarmente a cuore l’orientamento dei ragazzi: fa l’ingegnere biomedico, ed è una delle ambasciatrici del progetto Inspiring Girls promosso da Valore D con Eni e Intesa Sanpaolo. In pratica va nelle scuole raccontando il suo lavoro per essere un role model positivo contro gli stereotipi di genere, anche inconsapevoli. Parla di sé e racconta la sua storia con una naturalezza che non ha niente di epico o retorico e proprio per questo è efficace.
Manuela è piemontese, è cresciuta in campagna in una famiglia di agricoltori. Un pezzo importante della sua formazione, perché è qui che ha appreso l’amore per la vita, la natura, l’importanza della cura, la fatica che rende importante ogni frutto della terra, anche il più piccolo. Nessuna contraddizione nel fatto che poi si sia appassionata alla scienza: il sogno nasce da bambina, nello studio del dentista, dove osservando il laboratorio odontotecnico capisce che quello che vuole fare è creare, costruire. Ammira come i materiali si trasformano in qualcos’altro, si appassiona alla materia grezza che diventa parte del corpo umano. Farà la scuola professionale per odontotecnici, per poi decidere che vuole andare oltre, avere più possibilità, accedere anche alla ricerca. Così sceglie ingegneria biomedica e dopo la laurea comincia la specializzazione all’ospedale di Asti. Il campo che ha scelto è la cardiologia, ed è infatti con un modellino di cuore che va nelle scuole a raccontare agli adolescenti il suo lavoro. Spiega con passione e semplicità un argomento complesso come gli interventi sulle aritmie del cuore, cui lei partecipa da una sala comandi con la stessa tensione e concentrazione che c’è nella sala operatoria tra il chirurgo e l’elettrofisiologo. Un lavoro di squadra dove ciascuno deve avere fiducia nelle competenze dell’altro.
Poi è arrivata la maternità, che è sempre un punto di svolta importante nella vita e nella carriera di una donna. Purtroppo scopre che la condizione di mamma è diventata un impedimento durante i colloqui di lavoro. Racconta: “Quando mi chiedono come sono organizzata con il bambino, io rispondo benissimo. Ci sono le nonne, la baby sitter, non è mai stato un problema. Quando allattavo lo portavo con me ai congressi in giro per l’Italia. Di fatto però ricollocarmi con la maternità è stato molto difficile. Certe domande mi spiacevano e le vivevo come un’invasione nella mia vita privata, mi sembrava non emergesse mai la mia qualifica professionale, ma questa condizione di mamma. Essere mamma non è una condizione, è uno dei miei ruoli”.
Nel 2016 Manuela decide di fondare con la collega Gianna Nigro il network WeWomEngineers, un luogo di connessione per tutte le professioniste come loro per scambiarsi esperienze, opinioni, creare collaborazioni, individuare punti critici e attività specifiche di supporto per le colleghe e i colleghi. Il network infatti è inclusivo a 360° e ha tra gli obiettivi anche raggiungere i giovani. “Ai giovani non pensa mai nessuno” dice Manuela “noi vorremmo offrire dei servizi di aiuto alla ricerca di lavoro, alla valutazione del contratto, alla gestione dell’attività autonoma. Il precariato è un problema trasversale che ha colpito anche professioni un tempo sicure come quella dell’ingegnere”.
Oltre alla complessità del mercato del lavoro, Manuela, come molti suoi coetanei, porta a galla l’inevitabile problema della generazione di valore legata alle scelte lavorative. Spiega: “È importante individuare delle forme di educazione alle nuove professioni perché l’innovazione richiede delle attività correlate che la integrino nella coscienza delle persone, altrimenti rimane indigesta. L’evoluzione deve essere un’opportunità, non una schiavitù, e bisogna anche ripensare il lavoro in chiave meno totalizzante, altrimenti i nostri giovani continueranno a perdere la voglia di avere passioni, di mettere su famiglia. Posso manovrare un robot sofisticatissimo, ma il mio sorriso è uno strumento positivo che supporta l’intero sistema”.
Conosce bene il valore di quel sorriso il suo bimbo di tre anni, che la aspetta la sera per chiederle “Mamma, mi fai ridere?” Lei toglie le scarpe, mette la tuta e comincia a correre per casa insieme a lui. Sarà il master in bioetica, sarà l’infanzia in campagna, sarà la maternità, di sicuro il dibattito sul lavoro si arricchisce molto con le posizioni di chi, come Manuela, ama allo stesso modo il progresso tecnologico e le piccole cose belle della vita.