Ci siete mai entrati in un reparto di oncoematologia pediatrica? Avete mai incrociato gli occhi di un bambino malato? Di un bambino che trascorrerà le feste di Natale, Carnevale e probabilmente pure la Pasqua e il suo compleanno alle prese con i crampi allo stomaco della chemioterapia? Che ha i globuli bianchi così bassi che se inciampa nello starnuto di uno sconosciuto rischia la polmonite? In un bambino con la cuffietta in testa a riparare un cranio completamente glabro, lucido di una pelle che ha la stessa sfumatura di grigio della sua faccia?
Avete mai sentito quella sensazione di impotenza che paralizza le braccia lungo il corpo rendendole incapaci di abbracciare le mamme di quei bambini? Che annichilisce la lingua e la schiaccia tra i denti schiantando le parole (che vorrebbero uscire di corsa) sulle gengive?
A questo ho pensato nei giorni scorsi vedendo girare sui social, come fosse una trovata divertente, la foto di un bambino mascherato da malato: vestaglietta, flebo, catetere e sacchetto per raccogliere le urine che un tocco di iperrealismo serve assai quando si tratta di sbalordire le madri che hanno vestito le figlie da Cecilia Rodriguez (altra foto da social). È vero che della foto non si conosce autore ed origine. Ma la trovata di vestire un bambino da malato non è nuova. E come si fa a commentare con un leggero: “Vabbè, ma è Carnevale, è una maschera, si fa per sdrammatizzare”. Non c’è niente da sdrammatizzare quando si parla di bambini malati, di bambini che, se saranno fortunati, cresceranno col ricordo di quell’inverno senza capelli, dello stomaco che urlava e della pancia che si contraeva.
No: niente da scherzare quando si tratta di mamme che mollano il lavoro e, spesso, pure la città dove abitano con la loro famiglia per trasferirsi in una stanza d’ospedale a tenersi stretto quel bambino che cerca di asfaltare il male. Non c’è niente da ridere quando quelle mamme sono costrette ad asciugare con una carezza il sudore dalla testa dei loro figli, a portargli via le lacrime con un bacino leggero, a convincerli che andrà tutto bene quando loro per prime non lo sanno come andrà e hanno così tanta paura che invece vada male che incendiano il paradiso di candele.
Io le ho conosciute un po’ di mamme come queste e ho visto i loro figli che avevano la stessa voglia di giocare, di ridere di mascherarsi, di aprire i pacchetti di Babbo Natale e assaggiare un dolcetto (uno solo!) della calza della Befana. La stessa voglia di normalità e di vita e di prendere a calci un pallone o dondolare sull’altalena di ogni bambino del mondo. Una lotta disperata per la normalità: nei medici e negli infermieri, nelle associazioni e nei gruppi di volontari che si improvvisano clown o supereroi, determinati tutti a rendere normale ciò che è, suo malgrado, speciale.
Perché devi essere davvero un lottatore formidabile, uno che non ha paura di giocare a nascondino con la morte e costringerla a stare sotto e contare il più a lungo possibile, per decidere che ogni giornata di ogni bambino ricoverato deve avere quel pizzico di normalità che serve per andare avanti e resistere ai crampi, ai sudori freddi, al male dei mali, alle lacrime e alla rassegnazione. Che sì, arriva anche quella, certe volte: arriva quando i farmaci vengono sostituiti da una sostanza pietosa che leva il dolore.
Perché sì: anche i bambini sentono il dolore e ne possono sentire così tanto che solo quella sostanza lì riesce a regalargli la tregua di cui hanno bisogno per morire in pace.
Perché sì: anche i bambini muoiono e, maledetto mondo, alcuni muoiono soffrendo un male che ammazza anche gli adulti, quelli che hanno vissuto una vita di salute prima di conoscere il dolore della malattia.
Perché i bambini si ammalano e muoiono di cancro come gli adulti, peggio degli adulti. Ed è per questo, ricordando gli occhi grandi, nudi di sopracciglia di tanti di loro che non si può non provare una rabbia furiosa verso quei genitori che, avendo la sconfinata fortuna di avere un figlio e di averlo sano, trovano divertente travestirlo da ammalato. Che tanto è Carnevale…