«E’ stato colto da un raptus», «Si è trattato di un omicidio passionale», «L’ha uccisa perché l’amava troppo», «Ha perso la testa perché non sopportava di perderla»… Queste sono solo alcune delle parole sbagliate per descrivere un episodio di violenza sulle donne. Parole che sminuiscono, giustificano, etichettano come ‘amore’ quelli che invece sono solo atti violenti e spesso mortali, che con i sentimenti non hanno nulla a che fare. Nascono da una mentalità che spesso nasconde una latente colpevolizzazione della vittima, che in qualche modo viene considerata corresponsabile di ciò che le è stato inflitto, oppure contribuiscono a trovare un movente per il colpevole, che subito diventa giustificazione. Parole che portano a sezionare la vita delle persone in maniera fin troppo dettagliata, con la finalità di scovare aspetti morbosi e sensazionalistici. «Non c’è nessun rispetto delle vittime, che vengono denudate e stuprate una seconda volta – commenta Angela Romanin, responsabile della Formazione della Casa delle donne per non subire violenza di Bologna – pensiamo a come un assassino, in recenti casi di cronaca, venisse chiamato ‘fidanzatino’ su tutti i giornali».
Occorre sgombrare subito il campo da ogni ambiguità: non c’è nessuna causa, movente, giustificazione, spiegazione o anche colpa di una donna che possa giustificare la furia omicida. «Una tesi di ricerca di qualche anno fa di Francesca Quaglia – spiega Romanin – ha mostrato come sulla stampa siano cambiate le ‘giustificazioni’ agli atti di violenza sulle donne prima e dopo il 1981. In quell’anno è stato eliminato dal codice penale il delitto d’onore e quindi le attenuanti legate all’onore degli atti di violenza. Fino a quel momento, dunque, il problema era l’onore. Dal 1981 la ‘giustificazione’ è diventata il fatto che gli uomini non riescono ad accettare di essere lasciati».
Le parole giuste, le immagini rispettose per raccontare e per svolgere il diritto-dovere di cronaca senza alimentare una mentalità sbagliata, esistono. Certo, il caso della violenza di genere è uno dei più difficili banchi di prova per un giornalista. Non aggiungere violenza dove c’è già stata violenza sembra un obiettivo facile, ma poi quando ci si trova, magari in fretta, a digitare sulla tastiera di un computer o si cerca un titolo o un’immagine che catturi l’attenzione, capita di travalicare il limite della deontologia. Se da un lato negli ultimi 10 anni si è iniziato a parlare di violenza sulle donne dando finalmente agli atti violenti il nome che hanno, è anche vero che questo ha avuto come contraltare una deriva morbosa, la ‘pornografia del dolore’ che dilaga in televisione e sui giornali. «La parola è stata fondamentale per richiamare l’attenzione della stampa – spiega Chiara Cretella, sociologa esperta di violenza di genere che si è occupata di questo tema in un libro uscito nel 2014, “Lessico familiare. Per un dizionario ragionato della violenza contro le donne” – Rispetto a 10 anni fa la situazione è cambiata moltissimo, siamo passati dallo zero assoluto a un surplus di informazioni sulla violenza contro le donne. Che però spesso sono informazioni a carattere violento, non sulla violenza». Negli ultimi 10 anni il lavoro dei centri antiviolenza è stato anche quello di portare alla ribalta i femminicidi quando si parlava solo di omicidi, quando non veniva neanche in mente che a uccidere potessero essere un marito o un compagno. Raccogliendo dati a partire dalle cronache, stilando rapporti e pubblicandoli, il clima è cambiato. «La parola è stata fondamentale per richiamare l’attenzione della stampa e della società – sottolinea Cretella – il problema è che ora si parla di emergenza dove emergenza non c’è: questo è un problema strutturale. Solo che ora i giornali riportano le notizie chiamando gli atti per quello che sono». In più, c’è la deriva di cui si diceva: «Stupro e violenza di genere, nelle narrazioni morbose, soffrono della stessa strumentalizzazione mediatica che vediamo per esempio negli episodi di terrorismo o nei casi di pedofilia», quella ‘pornografia del dolore’ che attira toccando gli istinti più bassi, a danno delle vittime. In questo senso, sottolinea Chiara Cretella, c’è da dire che «la stampa è quasi il male minore, in confronto a quello che vediamo in televisione o anche nelle pubblicità». Una situazione, che richiederebbe una «regia nazionale non solo da parte degli ordini professionali, ma a livello ministeriale, sulla quale c’è il silenzio assoluto».
La situazione è ben lungi dall’essere soddisfacente, ma qualcosa comincia a muoversi. A fine dicembre 2016 il Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti ha fatto proprio il documento della Federazione internazionale dei giornalisti che richiama all’uso di un linguaggio corretto, cioè rispettoso della persona, scevro da pregiudizi e stereotipi, a una informazione precisa e dettagliata solo nella misura in cui i particolari di un fatto siano utili alla comprensione della vicenda, delle situazioni, della loro dimensione sociale. Ad esempio, è auspicabile nei casi di femminicidio adottare il punto di vista della vittima, in modo tale da ridarle la dignità e l’umanità che, in una cronaca quasi sempre morbosamente centrata sulla personalità dell’omicida, sono spesso perdute. La Federazione internazionale fornisce indicazioni anche sul rapporto tra il giornalista e la donna che ha subito violenza, invitando a salvaguardare l’identità di quest’ultima, evitando la descrizione circostanziata dei luoghi e preservando il diritto alla privacy. Insomma, leggendo questo documento, sembrerebbe fuori luogo una telecamera che ci accompagna fino alla casa dove abitano le vittime di un presunto stupro, com’è successo in un recente caso a Firenze.
Nello stesso solco si ascrive l’iniziativa che ha portato alla redazione del “Manifesto delle giornaliste e dei giornalisti per il rispetto e la parità di genere nell’informazione, contro ogni forma di violenza e discriminazione attraverso parole e immagini” che sarà presentato domani. Il documento è stato redatto dalla Commissione pari opportunità della Fnsi, dalla commissione Pari opportunità dell’Usigrai, dall’associazione Giulia e dal Sindacato giornalisti Veneto. Il Manifesto di Venezia impegna i giornalisti firmatari a rispettare dieci impegni con l’obiettivo di realizzare «un’informazione attenta, corretta e consapevole del fenomeno della violenza di genere e delle sue implicazioni». Si va dall’inserimento nella formazione deontologica obbligatoria di quella sul linguaggio appropriato anche nei casi di violenza sulle donne e i minori all’adozione di un linguaggio declinato al femminile per i ruoli professionali e le cariche istituzionali ricoperti dalle donne. Si invita a utilizzare il termine femminicidio per i delitti compiuti sulle donne in quanto donne e superare la vecchia cultura della sottovalutazione della violenza. Occorre poi sottrarsi a ogni tipo di strumentalizzazione per evitare che ci siano ‘violenze di serie A e di serie B’ in relazione a chi sia la vittima e chi il carnefice e bisogna illuminare tutti i casi di violenza, anche i più trascurati come quelli nei confronti di prostitute e transessuali, utilizzando il corretto linguaggio di genere. L’impegno riguarda anche il mettere in risalto le storie positive di donne che hanno avuto il coraggio di sottrarsi alla violenza dando la parola anche a chi opera a loro sostegno. Non bisogna, inoltre, suggerire attenuanti e giustificazioni all’omicida, anche involontariamente, motivando la violenza con ‘perdita del lavoro’, ‘difficoltà economiche’, ‘depressione’, ‘tradimento’. Il diritto di cronaca, si legge nel manifesto, non può trasformarsi in un abuso e ogni giornalista è tenuto al “rispetto della verità sostanziale dei fatti”. Non deve cadere in morbose descrizioni o indulgere in dettagli superflui, violando norme deontologiche e trasformando l’informazione in sensazionalismo.
La versione integrale del testo è nell’ebook a cura di Alley Oop #HoDettoNo – Come fermare la violenza contro le donne, scaricabile gratuitamente sul sito del Sole 24 Ore.