Prassi retributive discriminatorie verso le donne. Questa l’ipotesi su cui sta indagando il Department of Labor (equivalente del ministero del lavoro) riguardo a Google. Come ex di Google sto seguendo con particolare interesse la questione perché il gruppo mi ha dato a suo tempo grandi opportunità. La mia prima manager a Google era Claire Johnson, oggi COO di Stripe. Una vera champion della meritocrazia e delle pari opportunità. Sheryl Sandberg, a capo del dipartimento per cui ho lavorato quattro anni e oggi COO di Facebook, mi ha sempre fatto sentire completamente supportata e mi ha sempre spinta ad avere grandi ambizioni. La stessa Sheryl, che poi ha fatto del Lean In un movimento mondiale. Posso dire per esperienza che il suo supporto alle donne del suo dipartimento perché si assumessero maggiori responsabilità è sempre stato chiaro. Discussioni sulla parità dei generi nelle assunzioni erano all’ordine del giorno quando lavoravo a Google. Non mi sono mai sentita in un ambiente penalizzante per le donne o in cui alle donne venissero offerte meno opportunità che agli uomini. Al contrario, a parità di competenze, si preferiva assumere donne, soprattutto nel dipartimento di ingegneria dove il numero di presenza femminili era (e immagino sia ancora) notevolmente più basso del numero di uomini, riflettendo semplicemente la popolazione dei laureate in ingegneria elettronica.
E’ allora solo una bufala mediatica l’indagine del dipartimento del lavoro?
Probabilmente no. Il dubbio che ci siano in effetti dati a supporto delle accuse di prassi salariali discriminatorie vengono dalla posizione che Google ha preso rifiutando di fornire i dati salariali richiesti dal Dipartimento del Lavoro. Secondo me, però, non si può parlare di deliberata prassi salariale discriminatoria. A mio parere si tratta semplicemente della conseguenza di operare come un imprenditore (Google è una azienda imprenditoriale, non un ministero o una non-profit) in un libero mercato.
Google cerca di attrarre i migliori talenti sul mercato, a prescindere dal loro genere. In base al ruolo per cui sono selezionati i canditati, Google, come tutte le aziende sane sul mercato, ha dei range salariali definiti con range di piani di stock option (la combinazione delle due componenti costituisce il salario finale). Il punto di partenza, però, è il salario del lavoro che il candidato occupava prima di ricevere l’offerta di assunzione di Google. Il punto di arrivo è quello che si definisce dopo una serie di incontri e telefonate in cui si negozia la prima proposta.
Le possibili differenze salariali tra uomini e donne che lavorano a Google (come in ogni altra società) a mio parere trovano tutte le spiegazione in questo processo, non in una deliberata prassi (o peggio ancora politica) salariale discriminatoria. I dati di mercato ci dicono che, a parità di posizione, spesso le donne hanno un salario inferiore dei loro colleghi uomini. Google assume dal mercato e quindi parte da questo vizio del mercato. I dati ci dicono che le donne sono meno aggressive nella negoziazione del loro salario di ingresso o nella ricerca della loro promozione rispetto agli uomini. A maggiore ragione, è facile pensare che le donne siano ancor meno propense a negoziare aggressivamente il loro salario di ingresso o la loro promozione con un’azienda come Google che notoriamente offre moltissimi perks (benefit) in genere ed è stata pioniera dei benfit per le donne: sei mesi pagati di maternità quando la legge americana richiede solo quattro settimane di congedo per le neo mamme; congedo di paternità retribuito; carta di credito prepagata per supportare le spese delle prime settimane di maternità; pannolini sovvenzionati; massaggi prenatali; stanze per tirare il latte…solo per citare alcuni dei benefit per le neomamme a Google.
Inoltre, occorre tenere presente, che Google certo non ha difficoltà a trovare validi candidati che vogliono andare a lavorare lì e “avere Google sul curriculum” pone in una posizione di vantaggio sul mercato del lavoro. Occorre altresì tenere presente che quando si inizia a negoziare la proposta di lavoro, ci si mette nella posizione di rinunciare alla proposta sul tavolo nel momento in cui le richieste del candidato non vengano accettate. Negoziare la propria proposta di lavoro richiede una discreta dose di risk taking.
Io, per esempio, avevo girato la mia proposta di assunzione al mio mentor (un CEO uomo di una Fortune 500 quotata al NASDAQ) che mi aveva immediatamente suggerito di chiedere un sign-up bonus, di chiedere di alzare il salario di base e di aumentare il mio piano di stock options. Ho ottenuto tutte e tre le mie richieste nella fase di negoziazione, che ha richiesto cinque telefonate e un meeting. Se non avessi avuto il mio mentor a spingermi nella negoziazione, avrei indubbiamente accettato la prima proposta, accettando un salario più basso di quello che ho poi ottenuto. Il mio mentor, però, ad ogni passaggio della negoziazione mi ricordava anche che se il mio rilancio non fosse stato accettato, io non sarei entrata nel gruppo.
Credo, quindi, che la possibile differenza di salari tra uomini e donne in Google sia spiegata da queste differenze culturali e di mercato, piuttosto che da una deliberata prassi dell’azienda. Google è una società quotata e il suo obiettivo è quello di continuare a crescere il valore dell’azione con risultati positivi. Come imprenditrice, se posso assumere una donna ugualmente qualificata di un uomo a un salario più basso, sapendo che questa donna sarà motivata a dare il meglio di sé nella posizione, lo faccio, perché è la scelta migliore per l’azienda. Non penso che sia compito di Google assicurarsi che donne e uomini abbiano lo stesso salario. Sono anche abbastanza perplessa da queste indagini iniziate dal Department of Labor. Mi viene da pensare: ma perché il DOL (department of Labor) non si attiva per garantire per legge una maternità più lunga di quattro settimane in modo che una donna a cui arriva un’offerta di lavoro da una società che offre sei mesi pagati di maternità non sia disincentivata a negoziare il suo salario di ingresso?