Come vi sentireste se – in quanto donne – poteste beneficiare di facilitazioni nello svolgere un esame o un qualsiasi test di studio o di lavoro? Valorizzate o discriminate?
Un autogoal: non si può definire diversamente la decisione della Facoltà di Storia della celeberrima Università di Oxford di sostituire uno dei cinque esami finali con a “take-home” paper, una tesina, per le studentesse. La ragione risiederebbe nella volontà di colmare il gap del 6% tra le donne che ottengono il massimo dei voti (first class degree) e i loro colleghi maschi (dati 2016, Higher Education Statistics Agency). Gap causato – secondo l’ateneo – da una maggiore emotività e da una minore propensione al rischio delle studentesse, che ne inficerebbero i risultati scolastici.
La misura andrebbe pertanto incontro al “punto debole del gentil sesso” – considerato strutturale e non culturale – offrendo un aiuto, tanto da essere inserita in un piano più ampio dell’università volto a diversificare il percorso di laurea sotto vari aspetti (per rispondere anche alle critiche ricevute di recente sulla preponderanza di “white” curriculum) e valutare un piu ampio range di skill. Quindi, le <a href="http://www.telegraph.co.uk/education/2017/06/11/oxford-university-blasted-insulting-decision-allow-students/" intenzioni erano pure buone! Ma l’autogoal è doppio, sia sul fronte del genere sia su quello delle competenze. Mi sembra che si lavori sugli effetti e non sulle cause – commenta Massimiliano Ghini, direttore di People Intelligence e direttore Scientifico dell’area People Management dei Master in Business Administration PartTime di Bologna Business School. Le persone, tutte (sia uomini che donne), si troveranno a lavorare in ambienti con forte pressione e imparare a utilizzare le proprie emozioni è una competenza fondamentale. Mi aspetto che l’Università sia una palestra per imparare a vivere e a lavorare e che debba considerare ogni momento come un allenamento”.
Secondo Dario Simoncini, professore associato di Organizzazione aziendale presso il Dea dell’università G. D’Annunzio di Pescara e fondatore e Vice-Presidente del Complexity Institute: «La scelta di Oxford tende a contenere l’attivazione dell’intelligenza emotiva delle candidate e a stimolare uno sbilanciamento a favore dell’importanza assunta dai ruoli sociali: da una parte quello degli insegnanti che in tal modo dimostrano di aver fatto bene il loro lavoro innalzando le performance delle studentesse e, dall’atro, quello delle studentesse che rinforzano il loro ruolo di donne socialmente pronte alla pari degli uomini a presentarsi sul mercato del lavoro. Letto in termini eco-sistemici, si tratta di un modello di omologazione e di conservazione da parte dell’università, interessata a mantenere il suo posizionamento piuttosto che a valorizzazione le potenzialità delle donne».
Forse per capirlo ed evitare errori eclatanti bisognerebbe che le stesse Università stesse si dotassero del linguaggio emotivo adeguato e comprendessero quanto la monocultura possa limitare la loro lettura del cambiamento della società. E quindi anche dei suoi “clienti” diretti, gli studenti, e indiretti, le aziende. Luisa Pogliana, una lunga carriera nel settore editoriale e in eventi internazionali, autrice di diversi libri sul management femminile tra cui Esplorare i Confini. Pratiche di donne che cambiano le aziende,mette il dito su questa criticità: “Restando in Inghilterra, è prassi recente nelle organizzazioni che il curriculum di chi si candida a un lavoro non abbia indicazioni di sesso (né nomi, né foto). Questa costrizione a valutare solo il bagaglio professional ha fatto aumentare molto le assunzioni di donne (fino ai direttori d’orchestra). E mi vengono in mente aziende informatiche assai avanzate, dove le donne – pur assunte per la loro alta professionalità – non rimangono, perché non disposte a tollerare il clima di pesante competizione conflittuale del gruppo maschile prevalente”.
Allora la domanda vera da porsi è: di quale cultura è intrisa la vecchia Oxford?