Tutto inizia al parco giochi, alle altalene. Adulto a bimbo/a di un paio di anni: “Vuoi scendere per far andare questo bimbo che è in fila? No dai, su, ti va di scendere? …. Non vuoi?”. E il maldestro tentativo si conclude con uno sguardo che vorrebbe essere complice all’adulto che accompagna il bimbo in fila che sottintende: “Eh, gliel’ho chiesto ma non vuole…”. Poi prosegue a casa. Quando a bambinetti di 2-3 anni viene aperto un frigo stracolmo e si chiede un generico: “Cosa vuoi mangiare per cena?”. E poi magari ci si innervosisce se rispondono “gelato”.
Oppure, più avanti, quando a bimbi dei primi anni delle elementari si chiede, per esempio, dove vorrebbero che tutta la famiglia passasse il week end o le vacanze. O quando, come mi ha raccontato un’amica qualche giorno fa, in una campo scuola l’educatore e le mamme lasciano a bambini della scuola elementare la decisione di decidere con chi dividere la stanza, innescando una serie di delusioni, frustrazioni, esclusioni e discussioni. Senza alcuna considerazione di concetti come lo spirito di squadra o le regole da rispettare, tanto importanti in qualsiasi disciplina sportiva e nel sano sviluppo emotivo dei bambini.
Lasciare le scelte ai bambini è un tema dalle molte facce. Educarli all’autonomia e alla capacità di scelta è uno dei compiti fondamentali di un genitore. Dalle geniali intuizioni di Maria Montessori in poi, l’indipendenza dei bambini fin dai primi anni di età, il lavoro per lo sviluppo dell’autonomia (e quindi della capacità di scelta), lo stimolo all’esplorazione e l’idea della presenza discreta del genitore e dell’educatore come guida silenziosa sono diventati alcuni tra i perni centrali nell’educazione dei bambini. Quello che è accaduto, però, è stato che la non comprensione profonda di alcuni di questi concetti ha fatto sì che molto spesso ai bambini venga affidato un potere decisionale che loro non possono gestire. E che l’autonomia sia confusa con l’essere lasciati a se stessi, senza una guida, senza una direzione.
Innanzi tutto un primo discrimine è l’età: a un bambino di due anni, per esempio, che è nel pieno dei terrible two come li chiamano negli Usa, possono essere date delle scelte, per esempio a tavola o tra i vestiti che deve indossare, perché questo è un segno di rispetto per la sua individualità in formazione e un aiuto per la definizione dei suoi gusti. Ma, a questa età, non si dovrebbero dare più di due opzioni, per evitare che il bambino entri in confusione e non riesca a distinguere ciò che vuole da ciò che non vuole, facendo scattare un “No” automatico a ogni proposta. E se chiedere un opinione su ciò che si farà in estate può essere un modo per aiutare un bambino delle elementari ad esplorare i suoi desideri o i suoi sogni e per farlo sentire pienamente coinvolto nelle decisioni familiari, lasciare a lui o a lei la responsabilità della scelta finale può essere un peso difficile da reggere o un segno di potere decisionale illimitato che, a breve, si scontrerà con la realtà.
Tenendo presente che un bambino non è mai uguale all’altro e che la cosa più importante è avere sempre la capacità di osservare i bisogni, le richieste e di ascoltare i messaggi di ognuno, è anche vero che con l’età le cose cambiano e i bambini vanno accompagnati nel cammino dell’autonomia. Perché se una scelta è troppo grande per loro, rischiano di sentirsi schiacciati, persi, angosciati e confusi. O, al contrario, onnipotenti. Il che può essere anche peggio. L’autonomia ha senso solo se viaggia in parallelo alle regole e alla chiarezza, tenendo sempre presente i tempi e i modi dello sviluppo cognitivo del bambino. E una domanda diventa inevitabile: non sarà che lasciare la responsabilità delle scelte ai bambini è in realtà una scorciatoia per scaricarsi di un po’ del carico che si sente sulle spalle un genitore?