Mentre in Italia viene finalmente approvata la legge sul cyberbullismo, che consente ai minorenni al di sopra dei 14 anni di chiedere direttamente ai gestori di siti e social network di oscurare, rimuovere o bloccare entro 48 ore un dato contenuto, senza dover ricorrere agli adulti, impazza sui social la discussione su Tredici (“13 Reasons Why” il titolo originale), la serie tv di casa Netflix tratta da un libro di Jay Asher. Uno spunto interessante e senza retorica sull’adolescenza e sul complesso fenomeno del bullismo.
Hannah Backer ne è la protagonista. Una cascata di capelli neri, sguardo vivo e intelligente, un lavoretto in un cinema, il desiderio impellente di amicizia e di amore come tutti i tredicennni. Hannah però, inaspettatamente, decide di togliersi la vita. Prima di farlo incide delle audiocassette nelle quali spiega le 13 ragioni del suo gesto, inviandole ad un selezionato gruppetto di compagni di scuola. Uno dopo l’altro, questi ultimi dovranno inserire le cassette in un vecchio walkman, mettere le cuffie e dare avvio allo scorrere dei nastri, ascoltando, lato dopo lato, il tragico maturare di una decisione alla quale non possono dichiararsi estranei – chi riceve le cassette è costretto ad affrontare la scomoda verità di aver contribuito a quel gesto – e fremere in attesa dell’enunciazione della propria colpa: condanna o assoluzione? Sì, perché Hannah si toglie la vita dopo aver subito atti di bullismo, cyberbullismo e di volenza sessuale da parte dei suoi compagni.
Vorrei subito liberare il campo da una facile semplificazione in cui Tredici, e non solo Tredici purtroppo, rischia di cadere e di far cadere lo spettatore. Tra bullismo/violenza e suicidio non vi è una causalità diretta: c’è qualcos’altro, c’è la struttura di personalità, ci sono difficoltà psicologiche, c’è un dolore che diventa intollerabile, c’è il senso di impotenza, ci sono la perdita della fiducia e della speranza che trasformano la resa finale in un’opzione di scelta. Per capirne l’origine bisogna rivolgersi ai mondi interni di questi soggetti, alle loro vite psichiche, al loro modo di percepire la realtà e la sofferenza.
Fatta questa premessa, trovo che la serie sia efficace nel descrivere il bullismo e l’adolescenza. Fa capire come il bullismo sia l’atto di un gruppo, di chi agisce con violenze dirette o indirette, piccole e grandi, e di chi resta “maggioranza silenziosa”, ma non meno colpevole, che con lo sguardo e la propria presenza sostiene e incita i bulli. Mostra come il bullismo sia spesso un supplizio che si consuma nel tempo, in una sommatoria di gesti, il più delle volte poco eclatanti: “per scherzo”, i compagni fanno circolare una foto nella quale Hannah è immortalata mentre scende da uno scivolo e inavvertitamente la gonna si solleva. Seguono gli sguardi, le risatine, le voci nei corridoi e negli spogliatoi dei maschi. Ma come non sei contenta Hannah (pensano alcuni) che il tuo fondoschiena da oggi è considerato il più bello della scuola? E via con l’invidia della altre ragazze, le battute dei maschi, le mani addosso in una drogheria, tanto dalla foto si capisce che sei disponibile e che è scontato poterlo fare (pensano altri). Questo è solo l’inizio del calvario interiore di Hannah. Per viltà – e per timore di ammettere la propria omosessualità – una compagna la identifica in una foto che ritrae due ragazze che si baciano. Seguono altri sguardi, illazioni, risatine, pettegolezzi. Prosegue l’etichettamento come “ragazza facile”.
Tredici è particolarmente efficace nel mostrare un male sottile, crudele, a tratti involontario. Si diventa bulli per allontanare da sé gli occhi di altri bulli, si tace per paura di essere coinvolti, si ride per non sentirsi esclusi, si colpisce per invidia, per narcisismo, per vendicarsi o per bramosia di accettazione. Non vi è una descrizione manichea della realtà adolescenziale, idealizzata o condannata senza appello, ma un quadro eccezionalmente realistico di un’umanità brulicante che si dibatte tra sensi di colpa, meschinità, invidie, egoismi. Hannah è strumentalizzata da tutti per fini personali con azioni che rischiano di passare sotto traccia, come sintomi sottosoglia. In molti casi di bullismo se si cerca il gesto eclatante si perde di vista l’insieme, l’effetto goccia. Tutti vedono, tutti sanno e sono troppo presi da se stessi, in un processo di autoindulgenza che si trasforma in indulgenza plenaria, di stampo omertoso: se tu non accusi me io non accuserò te. In fondo, si trattava di piccoli scherzi senza importanza.
Se alcuni auspicano che la serie possa essere trasmessa nelle scuole, perché finalmente si parli di questi temi e delle crudeltà che alcuni adolescenti sono costretti a vivere, in un realismo senza sconti, in Nuova Zelanda la si vieta ai minori di 18 anni, accusandola di passare l’idea che il suicidio sia accettabile quando generato dalla cattiveria degli altri e di favorire l’emulazione. A questo proposito mi chiedo: ma chi è cresciuto con il “Capitano, o mio capitano” Robbie Williams e con il dolorosissimo suicidio di Neil ne l’Attimo Fuggente cosa avrebbe dovuto dire? Quel film istigava al suicidio in caso di eccessiva rigidità dei genitori?
Senza voler sottovalutare il rischio dell’emulazione, sono preoccupata anche dal rischio opposto, della censura. Non sono temi facili, ed è del tutto comprensibile che una mamma o un papà possano spaventarsi. Il mio invito è a non chiudere gli occhi, a non girarsi dall’altra parte, a non cedere alla tentazione di censurare. Piuttosto, proprio quando viene la tentazione di farlo, confrontarsi con altri genitori, con gli insegnanti, o provare a capire insieme a degli esperti come sia possibile parlare con i propri figli di questi argomenti. L’esperienza clinica insegna che gli evitamenti dettati dalla paura lasciano le questioni irrisolte. Mi pare quindi più saggio seguire la massima di Robert Frost: “Se vuoi venirne fuori devi passarci nel mezzo”. Ascoltare, parlarne e aiutare i ragazzi ad affrontare il bullismo, a tenere viva la speranza nelle difficoltà e chiedere aiuto.
Al netto di alcune inverosimiglianze della serie e di qualche vacillamento nella costruzione dei singoli personaggi – tra cui Hannah stessa, rappresentata nella sua determinazione silenziosa e di cui forse si sarebbero potuti rappresentare meglio il dramma interiore e la disperazione – Tredici mi sembra uno spunto interessante, proprio perché non edulcorato e privo di retorica, per riflettere sul bullismo, sulla sua complessità e sull’inspiegabilità di tanti casi di cronaca. Ricordando che si tratta di una serie tv che, come tutte le serie, non ha pretesa di essere uno strumento educativo. La parte educativa spetta a noi.