E’ di una settimana fa la notizia di un agghiacciante episodio di violenza e bullismo che ha visto finire in carcere quattro minorenni tra i 15 e i 16 anni. Le accuse: concorso in violenza sessuale, riduzione in schiavitù, pornografia minorile, violenza privata aggravata. Agghiaccianti, appunto. E se succedesse a me?
Quando si diventa genitori o anche quando si supera una certa età o fase di vita, è inevitabile, cambia il punto di vista. E se prima si riusciva a mantenere una certa distanza da fatti raccontati, l’identificazione diventa quasi automatica e la domanda imprescindibile: “Cosa farei se succedesse a me?”. E il primo istinto è quello di identificarsi con la madre della vittima, pensare al dolore che si può provare, alla rabbia di fronte alla violenza subita dal figlio.
Subito dopo, però la stessa domanda emerge pensando alla situazione opposta: cosa farei se succedesse a me? Se fosse mio figlio ad agire una violenza che fa rabbrividire anche solo a nominarla, se fosse mio figlio a mostrare un disprezzo per l’essere umano che io non ammetto possa esistere, se fosse mio figlio a umiliare e annientare un coetaneo per divertimento postando online tutto quanto? Perché nessuno di noi può sentirsi alieno da queste situazioni.
I genitori dei “bulli” hanno detto, sempre secondo i giornali, che i carabinieri hanno esagerato e che mai i loro pargoli sarebbero stati capaci di azioni simili. Increduli di fronte all’evidenza, hanno cercato di minimizzare. Chissà se nei giorni successivi la realtà ha preso forma o la negazione è rimasta protagonista. Chissà se sono riusciti ad accettare che non erano i carabinieri a esagerare ma i loro figli ad aver deviato pesantemente. Si tratta di professionisti, commercianti, impiegati. Famiglie “normali”, quindi. Che come prima reazione di fronte a un evento simile hanno rifiutato in toto la responsabilità, hanno negato, hanno difeso.
E’ proprio la responsabilità il filo conduttore. Responsabilità e non colpa, che sono due concetti profondamente diversi. Prendersi la responsabilità di essere genitori significa guardare i propri figli ogni giorno, stare nella loro realtà, accettare che poco hanno a che vedere con l’immagine di loro che magari abbiamo idealizzato ma che sono persone complesse, sfaccettate e soprattutto in formazione. Che possono essere vittime o carnefici, che hanno bisogno di binari su cui correre, che con loro nulla è scontato. Prendersi la responsabilità significa pensare che noi abbiamo un ruolo fondamentale come genitori, come adulti che danno un esempio e che devono saper reagire di fronte a una situazione difficilissima come quella descritta. Non si tratta di prendersi una colpa che non è di facile attribuzione, si tratta di avere il coraggio di voler capire. Senza scappare.
E’ un po’ come quando – capita spesso – genitori di bambini anche molto piccoli vanno dallo psicologo e vorrebbero affidargli il figlio o la figlia, con quell’atteggiamento che dice: “Ecco, guardi, ha qualcosa che non va. Lo aggiusti lei”. Come se il tema non li riguardasse, esattamente come il “mio figlio non lo farebbe mai”. Far finta di non vedere, defilarsi, deresponsabilizzarsi. Sono questi i veri rischi dell’essere genitori, non le presunte colpe delle azioni dei propri figli. In quella mancanza di responsabilità che poi ai ragazzini rimproveriamo e che noi abbiamo mostrato per primi.
C’è un altro elemento da considerare: nei fatti di Vigevano, la mamma della vittima, sempre secondo i giornali, si è attribuita la colpa di quanto accaduto, di non essersi accorta prima, di non aver saputo leggere i segnali sul viso e sul corpo di suo figli. Questa madre, al contrario, di responsabilità probabilmente se ne dà anche troppe. Che stia qui, nella responsabilità, da prendersi e da insegnare, la chiave dell’essere genitore?
La storia di Luca e dei bulli quando non esisteva il bullismo