Bullismo. Ragazzini picchiati, fotografati e umiliati in rete, ripresi in atroci video mentre vengono torturati verbalmente e fisicamente dai loro coetanei. Questi i casi più gravi, quelli che giustamente finiscono sulle agenzie o le homepage dei giornali. Ma quante centinaia e centinai di storie di violenza quotidiana si perdono nella vergogna, nel silenzio e nella connivenza di chi sa, di chi vede, non dice e non ferma? Troppe.
Quando ero ragazzino io, la parola bullismo semplicemente non esisteva. Questo non voleva assolutamente dire che non ci fossero violenza, scherno, vessazione e sopraffazione, specialmente a scuola. C’erano eccome, ma non come fenomeno da tematizzare, combattere o arginare. E siccome la filosofia mi ha insegnato che ciò che non si può dire non esiste, azzardo ad affermare che esistevano i bulli, ma non il bullismo. Questa, che all’apparenza sembra solo una sottile differenza terminologica, portava culturalmente con sè delle conseguenze pesantissime. Sì, perchè i bulli esistevano, ma erano vissuti dal tessuto scolastico e sociale come un dato di fatto verso il quale, chiunque, prima o poi, avrebbe dovuto fare i conti. E anzi, in alcuni casi, proprio quel fare i conti (con i bulli) avrebbe dato al malcapitato una delle lezioni più importanti della vita, insegnandogli l’arte di farsi valere, e forse, chissà, diventare bullo a sua volta. Da sopraffatto a sopraffattore, preparandosi a un mondo dove la legge della giungla la faceva da padrona.
Ricordo bene come teorizzava la cosa mio zio Raffaele, fratello di papà, siciliano. Durante i pranzi di famiglia veniva da me al tavolo dei bambini, proprio da me (non a caso), e soffiandomi in faccia un fiato pungente che sapeva di grappa, mi diceva come avrei dovuto affrontare i bulli, sfidarli fisicamente: “se torni a casa con un occhio nero non fa nulla, l’importante è che a quell’altro l’hai mandato a casa con tutti e due gli occhi neri”.
Per essere vittima dei bulli dovevi e devi essere ancora oggi un soggetto debole. Non una persona debole, intendiamoci, anzi, molte vittime avrebbero forza e coraggio da vendere rispetto ai loro aggressori che si muovono vigliaccamente in branco. Soggetto debole inteso come appartenente o portatore di una qualunque caratteristica, fisica, estetica o sociale, che allontanandolo dalla norma e dalla maggioranza, lo renda facilmente individuabile, isolato e dunque “aggredibile”.
Io avevo quella caratteristica. Ed era anche ben visibile. Ero gay, ed ero effemminato. Non ricordo la prima volta che mi sono sentito urlare ricchione. Fine delle elementari credo. Ma ricordo perfettamente il colpo, la strozzatura al cuore, gola e stomaco che ogni volta provavo quando quella parola o un suo sinonimo mi venivano scagliati contro. Magari appoggiati dentro una risata, presa in giro, oppure gettati in faccia come insulto, reazione per qualcosa che nulla c’entrava. “Ricchione! Sto frocio! Finocchio!”. Un senso di soffocamento e vergogna che solo negli anni sarei riuscito a trasformare in rabbia verso una intollerabile ingiustizia. A dire il vero a me andava ancora bene, mi prendevo solo gli insulti, le canzonature umilianti davanti a tutti. Non era come con Luca.
Luca era di una classe accanto alla mia. Anche lui era un soggetto debole, ma lui lo era due volte. Sì, perchè Luca era gay (credo) molto effemminato, introverso, ma veniva anche da una famiglia difficile ed economicamente in difficoltà. La “diversità” di Luca era visibile anche nell’abbigliamento, fatto molte volte di indumenti con taglie sbagliate, riciclati o indossati perchè semplicemente erano gli unici disponibili. La cattiveria dei ragazzini con Luca raggiungeva i suoi livelli più alti. L’intervallo era il momento peggiore: calci nel sedere, insulti, trascinato e tirato spesso per le braccia sul pavimento dei corridoi, perchè lui doveva servire solo per pulire a terra. Tutto questo davanti a docenti che al di là di qualche urlo, non facevano un granchè per proteggerlo. Per proteggerci.
Ricordo un giorno in particolare, Luca arrivò a scuola con una cartella nuova. Era palesemente una cartella da bambina, con un’eroina dei cartoni stampata sulle tasche frontali. Forse era appartenuta ad una delle sue sorelle (non so nemmeno se ne avesse), e a lui era toccata come l’ennesimo riciclo. O forse Luca quella cartella nuova era riuscito davvero a farsela comprare. Ricordo il tormento di quella cartella cominciato fin dal primo giorno. I suoi compagni la nascondevano ogni volta in un posto diverso: in cortile, tra le foglie secche, nei bagni, giù nel sottoscala, o negli armadi delle altre classi, compresa la mia.
Ricordo l’espressione di Luca quando iniziava a cercarla, la stessa che usava ogni volta che veniva insultato. Un mezzo sorriso inclinato nella stessa direzione della testa, che voleva forse nascondere la vergogna per una rabbia che non si poteva permettere, perchè avrebbe solo peggiorato le cose arrabbiarsi. L’espressione di Luca era dolcemente stanca, e chiedeva aiuto, ai suoi stessi persecutori. Chiedeva di essere lasciato in pace.
Nessuno fece nulla a mia memoria. Ero un bambino è vero, e forse non so davvero cosa accadde. Magari invece la scuola, la preside e gli insegnanti fecero cose che non so per proteggere Luca, ma quello che ricordo attorno a lui sono risate e silenzio. Compreso il mio, spaventato di poter subire lo stesso trattamento, costretto in qualche modo a dovermi, a volermi sentire migliore di lui. Le poche a ribellarsi erano alcune ragazzine, precoci nel loro istinto materno. Nient’altro.
Chissà che fine ha fatto Luca con la sua aria costantemente assonnata, come se dal letto non avesse mai voluto veramente uscirne, forse proprio per non vivere quelle giornate così crudeli. So che ad un certo punto semplicemente non è venuto più a scuola. E così di Luca, si sono dimenticati tutti.
Sono sicuro che oggi, pochi si ricorderebbero di lui. Io lo ricordo molto bene invece, anche perchè lo associo al mio primo silenzio colpevole. Pesante mille volte più degli insulti che io stesso ricevevo, e che negli anni avrei continuato a ricevere sempre di più, sempre di più. Fino a farmi odiare, annullare me stesso, prima di reagire e amarmi talmente tanto da difendermi e difenderci davanti a tutto e a tutti.
Luca fu vittima dei bulli quando il bullismo ancora non esisteva. E siccome il bullismo non esisteva, i suoi bulli, non furono mai colpevoli, nemmeno con se stessi. I suoi insegnanti non furono mai colpevoli, di non avere preso le giuste misure per proteggerlo, per educare i suoi persecutori al rispetto, anche forzato. Non fui mai colpevole io, di essere stato sempre zitto, mentre Luca subiva. Almeno agli occhi degli altri, perchè ai miei occhi, quella colpa, negli anni è diventate sempre più chiara, sempre più visibile e dolorosa. Talmente chiara e dolorosa, che oggi, da vittima a vittima, potessi rincontrare Luca e la sua faccia assonnata, gli chiederei scusa. Scusa di essermi sentito migliore di lui per la paura di essere come lui e di subire fino in fondo la violenza che già subivo. Una violenza di cui, probabilmente ci ricordiamo solo noi, e quelli che, per i motivi più diversi l’hanno subita. Gli chiederei scusa di non avere avuto il coraggio di aiutarlo. Ma non sapevo come fare Luca, perchè non sapevo nemmeno come aiutare me stesso. E non avrei saputo farlo per molti anni ancora. E comunque non eravamo noi Luca che avremmo dovuto aiutarci.
La verità è che ci hanno lasciati soli, tutti. La verità è che non potevamo tornare a casa e dire “mamma a scuola mi chiamano ricchione”, perchè quegli insulti erano una vergogna due volte, una paura due volte, anche che mamma sapesse qualcosa che nemmeno noi capivamo ancora fino in fondo. La verità è che la scuola era una scatola chiusa dove quello che accadeva non usciva e non doveva uscire, e dove chi avrebbe dovuto educarci al rispetto, all’uguaglianza, non lo ha fatto perchè lui stesso, non aveva dentro di sè quelle nozioni. Perchè per due piccoli Mowgli come noi, l’unica legge che valeva era quella della giungla, senza nessun orso Balù pronto a proteggerci o farci ridere.
Dei bulli di quando non esisteva il bullismo, invece, sembra si sia persa totalmente traccia. Da adulti sono diventati tutti innocenti, salvati da quel “eravamo piccoli” che vuol dire tutto e nulla quando riesci a fare un male così grande da diventare addirittura insopportabile.
La cosa che in qualche modo mi auguro, è che forse, leggendo queste poche righe, qualche bullo di quando non esisteva il bullismo si risvegli. Riacquisti la memoria e magari rintracci la sua vittima, che trovi anche il coraggio di chiederle scusa. Che vada dai suoi figli, se ne ha, e gli racconti di quando era lui, a vessare, a fare subire la violenza agli altri. Di come tutto questo sia orrendo, e di come non esista età, condizione o inconsapevolezza che possa giustificare il male che si fa agli altri.
Forse mi illudo, ma ho imparato sulla mia pelle che immaginare un mondo migliore di quello che hai di fronte, a volte non solo è l’unica cosa da fare. E’ il primo, fondamentale passo, per renderlo reale quel mondo migliore, iniziando dentro di te.
Io di immaginare, fortunatamente, non mi sono mai stancato. E spero tanto che anche Luca abbia fatto lo stesso.