Tornata da Trieste e dal convegno Parole O_stili, continuo a riflettere sul tema dell’odio nella rete, caro anche ai social visto che rimbalza di qua e di là, con letture a volte appassionanti, altre volte francamente pericolose. Mi riferisco qui in particolare alle posizioni di chi, sposando una visione tragica e catastrofica dell’odio online, ha iniziato a invocare nuove e rigide norme per garantire un web più sicuro ai giovani navigatori.
Non era questo lo spirito del convegno, compiutamente espresso nel manifesto delle parole ostili che, ben lontano dal suggerire soluzioni di tipo normativo, richiama tutti ad un quotidiano e assai più complicato impegno culturale ed educativo. Sebbene Internet rappresenti un canale che disinibisce e al tempo stesso amplifica la portata di un messaggio ostile, l’odio non è un problema della rete, non nasce con la rete, non si risolve guardando solo alla rete. E se davvero vogliamo proteggere bambini e adolescenti dalla violenza verbale, forse dovremmo interrogarci maggiormente su cosa accade fuori dalla Rete, negli altri contesti in cui vivono. Quali parole ascoltano a casa e a scuola?
Da qualche anno gli studi mostrano come gli abusi verbali in famiglia siano molto diffusi. A dispetto della scarsa attenzione mediatica che ricevono, gli abusi psicologici, di cui quelli verbali fanno parte, costituiscono la forma di maltrattamento su bambini e adolescenti più diffusa nei paesi occidentali. Come le altre tipologie di abuso, possono condizionare negativamente lo sviluppo e il benessere emotivo di bambini e adolescenti. Bambini figli di genitori verbalmente aggressivi, più degli altri, sviluppano sintomi di ansia, depressione, dissociazione, abuso di droghe e, ovviamente, rabbia-ostilità, in un ciclo della violenza che si ripete, come dimostrano diverse ricerche. L’abuso verbale, insomma, non è meno grave di quello fisico o di quello sessuale.
Con “abuso verbale”, poi, non si intendono solo le situazioni in cui un genitore urla e sbraita contro un figlio, alzando la voce e magari brandendo qualcosa tra le mani. Psychology Today ne ha parlato pochi giorni fa in un interessante articolo sulle “altre” forme di violenza verbale, sui danni che possono essere inflitti ad un bambino senza mai alzare la voce, su quei silenzi armati e crudeli che lo mettono in ridicolo, lo fanno vergognare, lo fanno sentire inutile e invisibile. L’ostilità in assenza di rabbia è un segnale misto, ambivalente, difficile da decifrare per un bambino: la confusione emotiva che prova in questi casi è un grave fattore di rischio per la sua salute mentale.
Quanto alla scuola, in uno studio appena pubblicato sulla rivista Child Abuse & Neglect, studenti israeliani di prima media hanno raccontato di essere esposti alle grida degli insegnanti, ad insulti – a volte particolarmente crudeli – e ad umiliazioni pubbliche quando siano disattenti, non portino a termine un compito o prendano un brutto voto. Come affrontano queste esperienze? In silenzio: alcuni ripetendosi in monologhi interiori che non lo meritano (soprattutto le femmine), altri insultando l’insegnante a bassa voce (soprattutto i maschi), i più evitando di riferire ad altri adulti l’accaduto.
Inutile quindi accanirsi con la Rete, perché i bambini possono incontrare parole ostili in ogni contesto che frequentano, a casa, a scuola, nei contesti sportivi e di socializzazione, nel web. Non esistono antidoti o facili soluzioni, né online né offline. Mi è molto piaciuto, però, che nel manifesto delle parole ostili vi fosse un invito al silenzio, ad ascoltare con onestà e apertura, prima ancora di parlare. In un’epoca di iperproduzione di parole e immagini, mi è parso pregno di una saggezza d’altri tempi. Pensando ai genitori, agli educatori e agli adulti che si trovano di fronte un bambino credo sia un punto essenziale: i bambini vanno prima di tutto ascoltati e solo nel silenzio può maturare il vero ascolto. In “Le parole che ci salvano” lo psichiatra Eugenio Borgna cita sapientemente Ettie Hillesum a proposito delle tante, troppe parole inutili che diciamo ogni giorno, del valore delle parole taciute e del silenzio: “Bisogna sempre più risparmiare le parole inutili per trovare quelle poche parole che ci sono necessarie, per riconoscerci e riconoscere cosa c’è nell’altro. Questa nuova forma di espressione deve maturare nel silenzio”.