“Mi sono resa conto che i miei figli mi vedono solo come la loro madre, ma io ho un diploma di francese, ho studiato legge, ho superato il concorso di avvocato. Non sono così stupida! Mi sono iscritta di nuovo all’università per studiare Shakespeare, per tornare a lavorare e pensare di nuovo”. A parlare è Penelope Clarke Fillon, la 60enne riservata moglie gallese del candidato di destra alle presidenziali francesi e madre di 5 figli. La signora Fillon è finita al centro di uno scandalo che ha travolto suo marito, fino a poche settimane fa dato per favorito. Fillon avrebbe fatto figurare sua moglie e due dei loro figli come assistenti parlamentari (lavoro mai svolto) versando loro quasi un milione di euro.
Al di là della triste vicenda del candidato francese e della sua consorte (che oltretutto pare non sapesse neanche di essere la beneficiaria dei compensi incriminati), è da giorni che mi frulla in testa questa frase, ripescata da una sua vecchia intervista del 2007. Sarà perché il difficile equilibrismo tra lavoro e famiglia e tra realizzazione personale e professionale e cura dei figli mi riguarda in prima persona, ma mi sono chiesta: come mi vede mio figlio? Come mi vedrà quando sarà grande? Che esempio di donna interiorizzerà? Perché, se da un lato è vero che i bambini hanno bisogno della presenza fisica ed emotiva, è vero che questa presenza è condizionata dagli impegni lavorativi e a quello che “il resto della vita” richiede. Ovviamente molto dipende dall’età dei figli: un conto sono i bambini fino a 3 anni, un conto è un bambino che va alla scuola dell’infanzia e ancora diversi sono i casi dei bambini di 6-10 anni e degli adolescenti (e non necessariamente una maggiore età significa un minore impegno), quindi non si può generalizzare. Molto dipende anche da quanti figli si hanno (tra 1 e i 5 della signora Fillon c’è una gran differenza). Ma pur con tutti i distinguo del caso, la domanda resta: che immagine sto dando? In un Paese come il nostro in cui la conciliazione per le donne ha una lunghissima strada davanti, in cui ancora una donna su tre lascia il lavoro dopo la nascita di un figlio (dati Istat al 2015), è inevitabile chiedersi cosa sacrificare e quando.
Da un lato, dedicarsi ai figli nella fase delicata della loro crescita è un compito tanto impegnativo quanto fondamentale anche a livello sociale e non solo per il bene degli adulti di domani. Dall’altro, abdicare alle proprie aspirazioni o rinunciare alla propria autonomia in nome di questo impegno può essere un’arma a doppio taglio. Non solo perché, come è facile intuire, “i figli poi crescono, e tu che fai?”. Ma anche e proprio per l’immagine e per l’esempio che viene dato ai bambini e ai ragazzi, testimoniando con le proprie scelte che dedicarsi agli altri anche rinunciando a se stesse è la scelta giusta da fare. Ovvio, ci sono donne che nella maternità e nella cura dell’altro trovano la loro realizzazione, non è a queste mamme che penso. Ma all’ampia platea di donne che come un funambolo cerca di destreggiarsi al meglio sognando giornate lunghe 48 ore per portare a termine tutti i compiti dei numerosi ruoli che ricopre.
Ma c’è un’altra cosa che mi ha colpito nell’intervista: quel “solo”. Perché dire “mi vedono SOLO come una madre” stride da qualche parte. Come “solo”? Un ruolo così ampio, così complesso, così impegnativo, così totalizzante come quello di madre diventa “solo”? Sì, se ci sono aspirazioni professionali che vengono messe da parte, per esempio. Sì, se ci sono passioni che si vogliono realizzare e a cui si rinuncia. Sì, se la società o il sistema familiare o quello lavorativo non lasciano adeguati spazi di realizzazione personale. Sì, perché in una madre c’è anche una donna, una persona con tutta la sua ricchezza e complessità. Sempre.