Negli ultimi anni l’attenzione per la parità di genere è stata crescente e diverse misure sono state adottate per favorirla anche in Italia. Eppure, dopo un miglioramento che si è riflesso anche in una ascesa nella graduatoria internazionale (il Global Gender Gap) dal 77° posto nel 2006 al 41° nel 2015, nel 2016 siamo nuovamente scivolati indietro, al 50°. E i miglioramenti nel ranking sono da attribuire quasi unicamente alla partecipazione politica (dove ci piazziamo al 25° posto), mentre la dimensione economica mostra un arretramento (siamo al 117° posto su 144 paesi).
In effetti, il tasso di occupazione femminile resta al 48,2% (nel terzo trimestre 2016) contro il 67% maschile, con il divario maggiore tra i principali paesi europei. Rimane alto anche il divario salariale, a parità di caratteristiche dell’occupazione intorno al 13 per cento. Cosa spiega questi risultati? Cosa continua a non funzionare? I possibili candidati sono la formazione delle ragazze (inadeguata per il mercato del lavoro?), le difficoltà di conciliazione (maggiori per le donne), le discriminazioni (esplicite e implicite).
Sul fronte della formazione, le indagini sulle performance universitarie mostrano un rovesciamento del primato maschile, con le ragazze che si laureano mediamente con voti migliori e tempi più rapidi. Ma resta una minore presenza nei comparti che assicurano un più facile accesso al mercato del lavoro e la possibilità di carriere più rapide (in particolare nei settori STEM, Science Technology Engineering Mathematics). Non solo: alcuni studi recenti mostrano come le donne – anche a parità di laurea (più precisamente nello studio di Reuben, Sapienza e Zingales si tratta di Master in Business Administration) – tendono a entrare in comparti meno competitivi e peggio pagati. Una sorta di “autoselezione” verso carriere peggiori.
In Italia resta significativa la fatica di conciliare vita e lavoro nello spiegare la difficoltà di accesso al mercato del lavoro. Lo testimoniano le evidenze circa l’aumento dell’occupazione femminile che si è associato all’abbassamento dell’età di ingresso dei bambini alla scuola materna e quelle riguardanti l’impatto positivo dell’immigrazione (specializzata in lavoro domestico e di sostegno) sempre sull’occupazione femminile. Ma lo dimostra, credo, l’esperienza di tutte.
Ma forse più di tutto continuano a pesare stereotipi e discriminazioni implicite, difficili da scardinare. In tutti i comparti la progressione in carriera resta difficile: la finanza, uno dei settori più “maschili”, ne è forse l’esempio estremo; le donne in posizioni manageriali restano pochissime nonostante la significativa presenza femminile all’ingresso. Il settore pubblico, caratterizzato da maggiori automatismi nelle selezioni, vede una presenza femminile maggiore anche ai livelli apicali. In generale, la selezione porta a riprodurre nelle posizioni di vertice caratteristiche tipiche della leadership maschile, riducendo così i benefici potenziali di una reale “diversity”, anche negli stili. Ma anche dove le selezioni appaiono neutrali, si possono nascondere stereotipi e discriminazioni. I test preselettivi di ingresso in Banca d’Italia (anonimi e quindi ritenuti neutrali per definizione) tendono a selezionare più uomini che donne: l’analisi ha mostrato come in passato vi fosse un effetto negativo associato alla maggiore avversione al rischio delle ragazze, che tendono a rispondere solo quando certe della correttezza, a differenza dei compagni che “rischiano” di più. Anche correggendo questa distorsione (penalizzando di più le risposte sbagliate), le differenze restano, solo in parte spiegate dalle caratteristiche dei candidati. Un effetto della diversa attitudine verso la competizione? O del diverso grado di “sovra-confidenza” tra maschi e femminine? Come scardinare questi ostacoli? Come per tutti i problemi complessi, non è pensabile di utilizzare un solo strumento.
Le quote di genere sono un meccanismo distorsivo, utile però a ridurre gli effetti di altre distorsioni, come le discriminazioni implicite: riducendo anche la pressione competitiva, possono incidere sui comportamenti di chi viene selezionato (ad esempio limitando l’omologazione agli stili maschili). In Italia hanno assicurato nei consigli di amministrazione delle società quotate una presenza femminile oggi superiore al 30 per cento e valori simili nelle società pubbliche. Questi risultati non si sono ancora tradotti in una maggiore occupazione femminile o nella crescita della presenza in posizioni manageriali. Per ottenere risultati anche su questi fronti occorre lavorare su altri strumenti, soprattutto interni alle imprese: innanzi tutto la flessibilità lavorativa e le modalità di selezione nei percorsi di carriera (ad esempio le vacancies interne e commissioni di valutazione con composizione mista).
Ma occorrerà anche monitorare con grande attenzione il periodo di transizione verso la fine dell’operatività della Legge 120/2011 sulle quote di genere: la sua temporaneità (3 mandati dei consigli di amministrazione), considerata unanimemente una buona prassi normativa, non dovrà essere un’occasione per tornare indietro…