Una scuola specializzata in matematicain ogni città britannica. Questo il piano della prima miistra inglese, Theresa May, perché il Paese resti competitivo anche dopo Brexit. Non solo. Il govero inglese ha pronto un pacchetto di Investimenti da 170 milioni di sterline per gli “istituti di tecnologia”. L’obiettivo è quello di aumentare la produttività del Paese.
Perchè partire dalle proprie debolezze spesso può aiutare. E May ne è consapevole, tanto che qualche tempo fa ha sottolineato: “la nostra strategia industriale moderna è la parte critica dei nostri piani per una Gran Bretagna post-Brexit”. Per assicurare “prosperità” al Paese è necessario investire sui giovani. “La nostra azione ci aiuterà ad assicurare ai giovani la possibilità di svilupparele competenze necessarie per avere lavori ben pagatiin futuro” ha dichiarao May, aggiungendo: “Questo significa aumentare l’educazione tecnica e assicurarsi di estendere le stesse opportunità e lo stesso rispetto che riserviamo ai laureati anche che scelono un’indirizzo tecnico”.
Un concetto così semplice, eppure non affatto scontato. E se lo fa la Gran Bretagna, che è l’hub europeo eella finanza e delle startup innovative, perché non dovrebbe farlo l’Italia? Soprattutto se si pensa che in Italia ogni anno ci sono 60mila figure professionali che le aziende faticano a trovare. Figure che in gran parte fanno parte del sistema di istruzione tecnica: dal meccanico al geometra, dall’agroindustria al tessile-moda, dall’informatica e al marketing. Non è un caso, infatti, che a un anno dalla maturità un diplomato su due degli istituti tecnici già lavora. Secondo i dati di Almadiploma, infatti, il tasso di occupazione dei ragazzi tocca il 46,9%, con punte che arrivano al 57,6% nell’indirizzo «elettronica ed elettrotecnica». A superare il 50% sono anche i periti usciti, sempre da 12 mesi, dagli «altri indirizzi tecnologici» e pure il percorso «economico-turistico» si attesta su un significativo 50,6 per cento.
Dopo la riforma del 2010, gli istituti tecnici sono oggi strutturati in due settori, economico e tecnologico, e sono suddivisi in complessivi undici indirizzi. Fra l’altro è in miglioramento anche la qualità dell’istruzione che offrono, considerato che gli ultimi dati Ocse-Pisa, sui test Invalsi, hanno riconosciuto i buoni livelli di competenza raggiunti dagli studenti “tecnici”, specie in matematica e nelle regioni settentrionali. Resta il fatto che molte competenze si fatica a trovarle nel mercato del lavoro e che un investimento su questi istituti potrebbe portare a ricadute positive nel prossimo decennio a livello di produttività italiana e quindi di Pil.
Stessa cosa si dice per l’ambito matematico. Le declinazioni che da esso derivano, dalla tecnologia alla chimica, aprono le porte a diverse opportunità, perché si tratta di competenze ricercate dalle aziende. Si prenda ad esempio la laurea in chimica: secondo AlmaLaurea a un anno dal termine degli studi lavorano 8 laureati su 10 e a cinque anni di distanza ben il 91 per cento. Non solo: in genere i laureati in chimica hanno una busta paga del 10% più pesante degli altri laureati. Se poi si prendono i laureati in materie tecnologiche i dati sono addirittura migliori. Peccato che gli iscritti a queste facoltà non siano tanto numerosi da rispondere alle esigenze del mercato. Ma come si fa a far appassioanre i giovani a questi corsi di studio? Una risposta potrebbe essere investire dalle scuole primarie sulle cosiddette materie Stem. In questa direzione vanno iniziative come “IN ESTATE SI IMPARANO LE STEM – Campi estivi di scienze, matematica, informatica e coding”, promossa dal Dipartimento delle pari opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri e rivolta alle istituzioni scolastiche primarie e secondarie di primo e secondo grado. Ma certo sono solo un timido passo in una direzione presa in modo ben più deciso dalla Gran Bretagna. E l’Italia, se vuole essere competitiva, non può più permettersi di essere “timida”.