Branchesi, la donna che è riuscita a far dialogare fisica e astronomia

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Marica Branchesi

È la pioniera di una nuova era astronomica. Quella multimessaggera capace di esplorare l’universo con luci e suoni. Si schermisce Marica Branchesi quando le dico che è considerata una delle scienziate più importanti del mondo. Si apre in un sorriso luminoso davanti a un caffè macchiato prima della conferenza che terrà in rettorato, all’Ateneo di Cagliari per il Festival della Scienza.

Questa scienziata italiana è una donna apripista. È grazie al suo fondamentale contributo se, per la prima volta, l’anno scorso, sono state osservate le onde gravitazionali provenienti dalla collisione di due stelle di neutroni. Una scoperta epocale che sta cambiando letteralmente il mondo della scienza. Davanti a me ho la prima scienziata italiana nominata dal magazine “Time”,per il 2018, tra le 100 persone più influenti del pianeta.

È la donna che è riuscita a far dialogare fisica e astronomia. La rivista Nature, che l’ha inserita, unica scienziata presente nella lista, nella top 10 delle persone più importanti in ambito scientifico per il 2017, l’ha soprannominata creatrice di fusioni perché è riuscita a mettere insieme astronomi e fisici.

Astrofisica, nata a Urbino 41 anni fa, è presidente della Commissione di Onde Gravitazionali e Astrofisica dell’International Astronomical Union e professoressa associata al Gran Sasso Science Institute che ha sede a L’Aquila, un luogo, per usare le sue parole, in cui è possibile fare scienza in Italia come la si fa all’estero.

Lei è considerata una delle scienziate più importanti del mondo. Come era da piccola?

Ero una bambina come le altre. Molto curiosa e amante della natura. Forse mi sono appassionata alla scienza proprio per questo. Merito anche di un bravissimo maestro elementare che mi ha fatto capire quanto poteva essere bella la matematica.

Però poi ha scelto astronomia

Quasi per caso, lo ammetto. Non ero un’astrofila. Quando ho dovuto scegliere quale facoltà frequentare, ero un po’ indecisa. Alla fine ho scelto astronomia. Mi è sembrato un modo affascinante per appagare la mia curiosità di capire l’universo

Che sembra quasi insondabile. Lei invece ha dimostrato che l’invisibile può essere visibile. Cosa ha significato?

Rilevare le onde gravitazionali, che sono delle perturbazioni nello spazio tempo, scaturite dallo scontro di due stelle di neutroni ha significato capire in che modo si formano nell’universo gli elementi pesanti come l’oro. A lungo è stato un vero e proprio enigma e ora siamo riusciti a svelarlo.

Per mettere a segno una scoperta simile cosa occorre?

Il lavoro di migliaia di menti di tutto il mondo. Scienziati e scienziate con esperienze diverse che abitano in luoghi diversi. Una cosa che mi piace sottolineare è come il valore della diversità abbia trionfato. Astronomi e fisici hanno messo insieme le loro capacità teoriche e sperimentali. Non è la scoperta di una sola persona, ma di tanti cervelli che hanno lavorato insieme.

È lei che ha coordinato questa comunità scientifica. Uomini e donne possono quindi fare squadra per raggiungere un unico e grande risultato?

Sì, è possibile. La scienza lo ha dimostrato. Le grandi sfide dei nostri tempi si vincono attraverso la collaborazione e il riconoscimento del merito che va oltre gli steccati di genere.

Eppure c’è ancora chi pensa che le donne non siano portate per la scienza. Perchè ci sono ancora questi pregiudizi?

Purtroppo non è un pensiero isolato. È un problema culturale che va risolto. Perché questi preconcetti non hanno alcuna base scientifica. Sono gli stereotipi che distruggono la scienza privandola della potenzialità delle donne. A partire dall’infanzia. Se una bambina viene cresciuta pensando che la scienza sia solo per gli uomini, lei non sceglierà mai quella strada. L’educazione è fondamentale. A me sembra strano per esempio che mi chiedano sempre cosa significhi essere madre di due bimbi. A Jan, il mio compagno che è anche lui scienziato, non viene mai chiesto cosa voglia dire essere padre.

Lei è arrivata ai vertici

Sì, io ce l’ho fatta. Ho lottato molto. Ma non sono un’eccezione. Quando abbiamo fatto l’annuncio a Washington della scoperta, c’erano cinque scienziate italiane. Bisogna ammettere però che alle donne viene sempre chiesto di dimostrare di più. Quando raggiungono un risultato viene messo spesso in discussione. Agli uomini capita decisamente meno. Poi c’è anche la paura di non essere adeguate. Anche a me capita, a volte, di sentirmi così. Lo vedo persino nelle mie studentesse, hanno più paura di sbagliare rispetto agli uomini. Non è solo un problema italiano, ma c’è anche a livello internazionale. È un retaggio che ci trasciniamo. Basta sottostimarci. È arrivato il momento di osare, di guardare in alto.

Come si può incrementare la presenza delle donne negli ambiti scientifici?

Nei criteri di selezione deve valere solo il merito. Bisogna cambiare il sistema. Non è solo una questione di numeri. Io sono contraria alle quote rosa perché possono avere un risvolto negativo. È capitato che mi abbiano chiamato a un convegno o in un comitato dove non c’erano abbastanza donne. Mi sono inquietata. Se mi chiami e perché lo merito per le mie ricerche, non perché servo a fare numero.

È una lotta su molti fronti. Lei è però riuscita ad ottenere dei riconoscimenti molto importanti. Cosa ha provato quando li ha ricevuti?

Sì, non avrei mai immaginato di poter partecipare a delle scoperte così epocali. La realtà ha oltrepassato i miei sogni. Quando è arrivata la notizia che ero stata inserita tra i dieci scienziati più importanti del mondo secondo la rivista Nature, è stato bellissimo perché ho saputo che la mia candidatura è stata supportata da molti colleghi. Una soddisfazione grande. Quando è arrivato l’annuncio del magazine Time, ho pensato a uno scherzo. Ho ricevuto una mail e non ho realizzato subito che potesse essere una cosa vera. Ci tengo a sottolineare che questa scoperta non è solo mia, ma di un’intera comunità scientifica. Il mio compito è stato quello di ridurre il gap che c’era tra astronomia e fisica. Una battaglia vinta.

Lei ha studiato in Italia, dopo si è trasferita negli Stati Uniti, ma poi è anche tornata. Si è sentita un cervello in fuga?

Quella che viene chiamata “fuga dei cervelli” in realtà è circolarità. È importante che i nostri ricercatori vadano all’estero, ma è altrettanto importante anche dare le opportunità ai giovani di tornare. L’Italia dovrebbe impegnarsi anche su un altro fronte decisivo: cercare di attrarre i ricercatori stranieri.

Cosa direbbe a una ragazza che vuole dedicarsi alla scienza?

È un lavoro appagante, molto emozionante. Bisogna farlo con tanta passione, determinazione. Tirate fuori la grinta. Non arrendetevi, imparate dai vostri errori. Perché fare la scienziata è veramente un mestiere da donne.