Il congedo lavorativo per le donne vittime di violenza, un diritto ancora poco conosciuto?

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Sono “solo” 150 le donne che, da luglio 2015, hanno usufruito del congedo previsto per le vittime di violenza. “Davvero poche rispetto alla portata del fenomeno”, secondo il presidente dell’Inps Tito Boeri, che ha diffuso per la prima volta questo dato. In Italia il 31,5% delle donne tra 16 e 70 anni ha subito nel corso della propria vita una qualche forma di violenza fisica o sessuale. Sono 6 milioni e 788mila, secondo l’Istat. Come mai un numero così ridotto di fronte a un fenomeno strutturalmente e drammaticamente diffuso nel nostro Paese? Per Boeri  “è il segno che molte donne non sono consapevoli di poter godere di questo diritto. Sicuramente quello della mancanza di informazioni in merito è un tema. Ma la questione è ben più complessa, a guardarla con attenzione.

La norma è contenuta nel Dlgs 80/2015 (decreto attuativo del Jobs Act, di cui tanto si è parlato per quanto riguarda il congedo parentale) all’articolo 24, con la circolare Inps che ne ha definito modalità e dettagli arrivata quasi un anno dopo. Il congedo indennizzato per violenza di genere di massimo 3 mesi (fruibile in 3 anni anche in modalità giornaliera o oraria) spetta alle lavoratrici dipendenti inserite nei percorsi certificati dai servizi sociali del Comune di appartenenza, dai Centri antiviolenza o dalle Case Rifugio. L’indennità riconosciuta è del 100% dell’ultima retribuzione. È anche prevista la possibilità di trasformare il rapporto di lavoro da tempo pieno a part-time, così come l’opportunità di essere nuovamente trasformato, a seconda delle esigenze della lavoratrice, in rapporto di lavoro a tempo pieno.

Ma 150 donne sono davvero poche? In realtà, prima dell’aprile 2016 la norma di fatto era sconosciuta anche alle sedi Inps in assenza di circolare, quindi non ci sono state richieste.  Inoltre, sottolinea Angela Romanin della Casa delle donne per non subire violenza di Bologna “c’è da considerare che cambiamenti di questo tipo ci mettono un po’ ad essere assimilati. Nel solo 2016 tra le donne che seguiamo (circa 700 all’anno, di cui i due terzi iniziano un percorso) ne hanno usufruito una decina di donne, che non sono poche”. In genere, si tratta prevalentemente di donne che hanno la necessità di allontanarsi e di non essere reperibili, quelle che vengono ospitate nelle Case rifugio per esempio, quelle più a rischio in casa loro. “La norma offre uno strumento buono e valido – spiega Angela Romanin – che sicuramente può essere tarato meglio con l’applicazione, a partire da una maggiore informazione delle sedi territoriali Inps ma anche dei datori di lavoro”.

Uno dei problemi, infatti, può essere quello dell’anonimato. Per esempio, tra i colleghi: far sapere la motivazione del proprio congedo può essere un problema per molte donne, magari in aziende di medie o piccole dimensioni. Mentre in grandi aziende si potrebbe pensare, per esempio, ad un’unica persona dell’ufficio del personale formata e addetta a trattare questi casi, così da essere sicuri di garantire l’anonimato. Un altro tema è quello dei Centri antiviolenza e delle Case rifugio che possono certificare all’Inps la richiesta: una lista “ufficiale” non esiste, “esistono dei criteri che dovrebbero essere verificati dai singoli territori, ma sul punto non c’è ancora chiarezza”, dice Angela Romanin.

Insomma, una norma di certo perfettibile e di cui si deve parlare di più, ma e che probabilmente con il tempo e con l’applicazione troverà una maggiore attuazione e diffusione. Una norma, però, molto importante perché considera la violenza di genere e i suoi devastanti effetti all’interno di un campo, quello lavorativo, che spesso per le donne vittime di violenza diventa molto difficile da gestire, garantendo non sono una possibilità fondamentale in più di sicurezza individuale, ma anche un sostegno in termini di indipendenza economica, una delle armi più subdole e utilizzate per tenere sotto scacco le vittime.