Enrica Chiurazzi, professione attrice: “Vivere di teatro è un atto di resistenza sociale”

«Fimmine fimmine ca sciatu allu tabacco / ne sciati dhoi e ne turnati quattru…» Il canto di denuncia delle tabacchine del Salento risuona tra le mura dell’aula. Enrica Chiurazzi – insegnante nella scuola milanese di teatro, cinema e danza “Il Faro Teatrale” – batte il ritmo con un bastone. Gli allievi si muovono, quasi in trance. Ciascuno in cerca, forse, del modo per sentirsi presente.

La scena non è un’eccezione nell’ambiente della recitazione. Un mondo dove Chiurazzi è approdata per vie traverse. «Dopo il liceo volevo entrare in accademia» racconta. «I miei genitori, però, non erano d’accordo e io non ho combattuto abbastanza». Ha scelto l’Università, si è laureata. Tuttavia, l’urgenza che sentiva dentro non l’ha abbandonata. Così, anche grazie all’incontro con Gabriele Vacis – suo docente alla Cattolica di Milano – ha trovato la strada per avvicinarsi al palcoscenico. È approdata al “Faro Teatrale”, dove prima è stata allieva e oggi insegna. Nel frattempo, ha approfondito la propria formazione, lavorando con maestri come Mamadou Dioume e Dominique De Fazio.

È chiaro: non siamo dalle parti di un red carpet hollywoodiano, né di fronte a imprese estreme. Chiurazzi è un’altra cosa: una professionista che ha scelto di dedicare la vita a ciò che sente suo: il teatro. Un vivere che, in Italia, risulta complesso e difficile.

Vivere di cultura…

«Fare l’attrice è duro» ammette. Soprattutto se il compromesso è messo alla porta. Non è «una forma di eroismo – si schermisce – e non mi lamento. Solo un modo di restare coerenti. Una scelta, precisa e consapevole. Ci sono colleghi che lavorano nella pubblicità, chi si muove in altri ambiti. Lo capisco e non giudico. Ma non è il mio modo di intendere l’arte: mi impegno su ciò che sento a me affine. In questo senso, mi considero anche fortunata. Insegno recitazione, un mestiere che adoro».

Ciò detto, portare la pagnotta a casa rimane arduo. E la scelta di stare lontano dai social da un lato, soprattutto sul piano dell’autopromozione, non facilita le cose; mentre dall’altro – in un ambiente già precario – sembra una forma di snobismo. Lei scuote la testa. «Snobismo? No, non è così. Per me contano i rapporti reali, il guardarsi negli occhi. La lentezza, che è alla base di ogni vera conoscenza. Tutto questo nel digitale non c’è». Poi aggiunge, con tono più pratico: «Certo, sto cercando un modo per esserci senza tradirmi. Ho aperto un sito personale. Non voglio mettermi in vetrina. È uno spazio che racconta il mio lavoro.»

Le produzioni indipendenti

Già, il lavoro. Chiurazzi partecipa e realizza – anche come regista – produzioni indipendenti. «È sempre un’avventura» dice. «C’è la parte entusiasmante, quella della costruzione dello spettacolo: il lavoro con gli attori, le prove, l’idea che prende forma. È un momento meraviglioso». Poi, però, arriva la fase più dura: far vivere ciò che si è costruito. Trovare i finanziamenti, organizzare le repliche, contattare le persone giuste.

«Lì inizia la fatica. Serve avere voglia di iopegnarsi in tante cose: ci vuole una grande passione, altrimenti non reggi». Vero! Esistono i festival che danno spazio a simili esperienze (“sto proponendo l’adattamento del romanzo Neve, di Maxence Fermine” ricorda l’attrice). Ma è molto complicato. «Laudate, ad esempio, trova via via il suo percorso anche grazie al passaparola. È stato ospitato in alcune chiese del Nord Italia. Persone che l’hanno visto ne parlano in altre parrocchie, e così si apre una possibilità. Piccola, ma reale.»

Il fil rouge

Al di là delle produzioni concrete, nelle “Sacre rappresentazioni vocali e strumentali” di Laudate ma anche nello spettacolo Madre che ha affrontato la Passione di Cristo, può cogliersi chiaramente un fil rouge: la spiritualità. È il tentativo di realizzare una preghiera laica? «Nello specifico di Laudate – risponde Chiurazzi – si tratta di una rappresentazione sacra, ideata da Raffella Lisi, che affonda le radici nella tradizione cristiana». Detto questo, lavorando alla regia, ci si accorge che alcuni elementi – spesso percepiti come esclusivamente religiosi – hanno una portata simbolica più ampia.

«Pensiamo al fonte battesimale dov’è presente l’acqua santa», considerata tale perché benedetta da un ministro di Dio. «Ebbene: se ci ragioniamo un po’, viene spontaneo dire che l’acqua sia sacra già di per sé. La vita sulla terra è nata nell’acqua». E che dire del fuoco! Da una parte, il simbolo dello Spirito Santo. Dall’altra, «lo strumento che, dalla preistoria, riscalda, protegge l’uomo». Insomma: la volontà – evidente – è di portare in scena «l’urgenza di un contatto con qualcosa di più grande». Un “più grande” il quale non implica solamente armonia. «La ferita non va nascosta, il sangue deve uscire. Bisogna accettarlo, perché questa è la vita.»

Impegno civile

Quella vita che, non va mai dimenticato, è anche politica: ma il palcoscenico può essere ancora spazio impegnato oppure solo luogo di ascolto e umanità? «Non capisco la separazione – risponde Chiurazzi-. Il teatro è entrambe le cose. Sempre. La politica deve passare dall’ascolto. L’umanità deve misurarsi nella sfera pubblica». In questi giorni ci sono state grandi manifestazioni per la pace a Gaza. «Io ho partecipato e ho avvertito ciò che non sentivo da tempo: la sensazione di far parte di una collettività. Dopo anni di impotenza, quell’energia in piazza ci ha detto che qualcosa è ancora possibile».

In tal senso il teatro è «uno spazio in cui la collettività si ritrova», un luogo che pone domande, «anche quelle senza risposta», e che proprio per questo resta inevitabilmente politico. Non è un’intuizione nuova, aggiunge. I Greci lo sapevano già. Basta pensare a Edipo a Colono, quando l’ex re, cieco e povero, viene respinto dagli abitanti. «Hanno paura della sua diversità, della sua storia. È una scena antichissima e completamente attuale. Accade, oggi, con i migranti» Insomma: il teatro, per Chiurazzi, continua a servire esattamente a questo: «ricordarci che la comunità mai è garantita, ma va ricreata ogni volta nell’incontro con l’altro».

Il mondo del corpo “intelligente”

Uno scambio all’interno del quale la corporeità assume un ruolo centrale. Non è un caso che, nel suo essere insegnante e nei percorsi di lavoro, il fisico sia per Chiurazzi sorgente di senso. «Il corpo per me è intelligenza» dice. Non si può essere davvero vivi, né in scena né nella vita quotidiana, usando solo la mente. «Bisogna abitare il corpo, con tutto ciò che contiene: respiro, peso, energia, fragilità». La fisicità ci permette di ascoltare, davvero. Sentiamo gli altri e lo spazio che ci circonda. Quest’ultimo, poi, non è neutro o vuoto. «Ha la sua esistenza – spiega sempre l’artista-. Ne dobbiamo percepire il volume, la consistenza». La parola da sola, per l’appunto, non basta: è il nostro organismo che la fa esistere.

In sintesi: la fisicità come strumento per entrare realmente in contatto. Un qualcosa che ha a che fare con la natura. Con i nostri istinti ancestrali che richiamano l’agire degli animali. La loro capacità di ascolto totale: «un’attenzione costante, una veglia», non come forma di paura, ma come orientamento vitale. Un ascolto radicato nel corpo che permette di cogliere i movimenti del branco ed essere pronti a rinunciare alla propria scelta. Alla propria individualità, se questo serve alla sopravvivenza del gruppo. «Il teatro è così,» conclude Chiurazzi. «Ascolto di te, del compagno in scena, del pubblico. Un continuo scambio, dove ogni presenza modifica l’altra».

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