L’introduzione del reato di femminicidio mette nero su bianco che l’uccisione di una donna in quanto donna è un fenomeno a sé stante rispetto all’omicidio e che, come tale, va valutato e giudicato, non solo a livello sociale ma a livello penale. Serviva davvero? È. giusto che la legge distingua tra femminicidio e omicidio? Quanto questo provvedimento influisce concretamente sulla lotta alla violenza contro le donne?
Il disegno di legge approvato dal Consiglio dei ministri nella riunione del 7 marzo 2025, alla vigilia della Giornata internazionale della donna, inserisce nel nostro ordinamento una fattispecie autonoma e una serie di aggravanti per i reati di specie, maggiori tutele per le vittime e la formazione obbligatoria per i magistrati. Un provvedimento che per la ministra alle Pari opportunità Eugenia Roccella «è una novità dirompente, non solo giuridica ma anche sul piano culturale». Sulla stessa linea la ex presidente della Commissione femminicidio e senatrice Pd, Valeria Valente, secondo cui il Ddl recepisce molte delle indicazioni raccolte nelle relazioni approvate all’unanimità nella XVIII legislatura.
Anche i magistrati sottolineano il valore della svolta: per Fabio Roia, presidente del Tribunale di Milano e tra i massimi esperti di violenza di genere in Italia, si tratta di un passo «molto importante, fondamentale, dal punto di vista simbolico e culturale», pur evidenziando alcuni miglioramenti che andrebbero apportati dal punto di vista tecnico. Per Paola Di Nicola Travaglini, giudice presso la Corte suprema di Cassazione e autorità in materia di violenza di genere, definisce «epocale la portata della nuova norma», perché la previsione di una fattispecie penale autonoma «ha il merito di nominare un fenomeno e definirlo», fornendo gli strumenti per il contrasto e anche per la prevenzione.
Riconoscere il reato in sé, nominare il femminicidio (cosa che fino a qualche anno fa non era così comune neanche sui media e richiedeva spiegazioni e distinguo) come crimine che nasce dalla discriminazione e migliorare una serie di tutele per le donne, così come – fondamentale – inserire la formazione dei magistrati nel Ddl sono tutti punti che trovano d’accordo le avvocate e gli avvocati esperti della materia e i centri antiviolenza. Ci sono tuttavia anche aspetti che vengono individuati come critici o criticabili, a partire dalla tenuta costituzionale del provvedimento, per finire con il sottolineare che si tratta di un altro provvedimento «a costo zero», che non vede cioè uno stanziamento di fondi considerato necessario per puntare su formazione e prevenzione.
Roia: «Per la prima volta nel Codice penale si parla di donne»
«È un provvedimento molto importante, in primo luogo come fatto simbolico e culturale, perché introduce per la prima volta nel nostro ordinamento il delitto di femminicidio. Non solo: per la prima volta nel Codice penale si parla di donne e questo è fondamentale». Roia, presidente del Tribunale di Milano, è netto: «Devo valutare questo testo come tecnico e la mia valutazione è positiva». Tra gli elementi degni di apprezzamento, Roia cita l’ampliamento del ruolo della donna in quanto persona offesa, «il poter interloquire sul patteggiamento, che è un dato molto importante», così come l’introduzione, in favore delle vittime di reati da Codice rosso, del diritto di essere avvisate anche dell’uscita dal carcere dell’autore condannato, a seguito di concessione di misure premiali, che «consente una pianificazione della tutela della donna».
Il magistrato evidenzia anche alcuni possibili correttivi, sottolineando che «ci sono alcune ricadute sul piano processuale che meritano attenzione» e che potrebbero essere corrette in sede parlamentare, auspicando che siano fatte audizioni in cui magistrati, avvocati ed esperti potranno evidenziare proprio gli effetti delle norme. Tra i punti che meritano una revisione, va considerato per esempio il possibile rallentamento dei procedimenti provocato dalla necessità di un tribunale collegiale nei casi di aggravanti per maltrattamenti e condotte persecutorie, «il che potrebbe provocare un allungamento dei tempi», aumentando così il rischio di vittimizzazione secondaria della donna che ha subìto violenza. Inoltre, andrebbe rivisto «anche l’obbligo da parte del pubblico ministero di ascoltare direttamente la vittima o i parenti della vittima, senza poter delegare alla polizia giudiziaria, che potrebbe trovare una causa in casi eccezionali o situazioni delicati, perché rischia di rendere la norma inattuabile».
Nel complesso, però, un messaggio culturale importante, che fornisce «nuovi strumenti di tutela e che andrà rivisto e supportato su piano di potenziali disfunzioni». Per quanto riguarda il vaglio di compatibilità costituzionale, per il presidente del Tribunale è un tema che andrà visto sul piano tecnico, «ma dobbiamo differenziare il piano tecnico da quello simbolico».
Di Nicola Travaglini: «Nominiamo un fenomeno per combatterlo, come fu per la mafia»
Il libro “Il nuovo Codice rosso” firmato da Paola Di Nicola Travaglini insieme al procuratore Francesco Menditto e pubblicato nel gennaio 2024 è una guida operativa alle novità sulle norme per il contrasto alla violenza di genere e contiene uno specifico richiamo alla necessità dell’istituzione del reato di femminicidio. Partendo dai richiami internazionali (come quello dell’VIII Rapporto sull’Italia della Cedaw) gli autori scrivevano: è «auspicabile che il femminicidio, inteso come uccisione di una donna per ragioni legate alla sua appartenenza di sesso, diventi un delitto a sé perché, come accaduto con l’approvazione dell’art. 416-bis c.p. (associazione di tipo mafioso), a seguito dell’uccisione di Pio La Torre e del Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, lo Stato, in tutte le sue articolazioni, decise di definire quel complesso fenomeno, con le sue peculiarità,peculiarità, opponendovisi, innanzitutto, attraverso l’attribuzione di un nome».
Il femminicidio, ci tiene a sottolineare Di Nicola Travaglini, «non si contrasta solo con le norme penali, non è questo lo strumento unico con il quale viene constrastato un fenomeno che è criminale e culturale. Però io faccio da sempre il paragone con la mafia: la mafia non esisteva finché non è stata nominata e definita, declinata. L’esistenza di una norma penale – dice – ha consentito ai giudici di misurarsi con un fenomeno criminale nelle sue manifestazioni concrete, richiedendo un impegno interpretativo». Certo, sottolinea Di Nicola, «non è che con la definizione di mafia ho contrastato il fenomeno mafioso! Contro la mafia servono strumenti di prevenzione, fabbriche, scuole, università e lavoro, ma questo non esclude che io debba nominare». La norma, quindi, «è uno strumento autonomo, che è chiaro che non serve da solo, ma che serve molto e non in alternativa alla prevenzione e insieme ad essa».
Dal punto di vista della valutazione dei casi, Di Nicola Travaglini ricordando anche il lavoro della precedente commissione parlamentare d’inchiesta sul femminicidio e l’esame di 211 fascicoli di tribunali, sottolinea che la norma «finalmente fornisce indicazioni utili per definire il movente dei casi di femminicidio, che finora era affidato a valutazioni soggettive di ciascun giudice, non avendo una fattispecie di reato. Ora ci sono i parametri che ci permettono di leggere il femminicidio come un atto di discriminazione, di potere e punizione della libertà femminile. Senza questo substrato culturale le valutazioni non possono che essere soggettive e personali». Inoltre, per la giudice, la norma ha valore anche in termini di prevenzione: «Se io qualifico un atto di discriminazione delle donne, allora sarò in grado di mettere in atto anche politiche di prevenzione, che siano volte a contrastare questa discriminazione, la violazione della libertà femminile. Tutto questo mi consente di creare specializzazione e formazione, conoscere, quantificare i delitti che rientrano in questa fattispeci e creare un bagaglio utile ai fini della prevenzione».
Centri antiviolenza e avvocate: «Importante dare un nome, ma non basta. Difficile l’applicazione»
Per la rete DiRe, che raccoglie quasi 90 associazioni in tutta Italia che gestiscono centri antiviolenza e case rifugio, il provvedimento però non basta. «Il piano simbolico è importante, vedere scritto il termine femminicidio è importante, ma dubitiamo che ciò possa prevenire davvero i femminicidi e siamo contrarie ad azioni che riguardano solo l’ambito penale», dice Elena Biaggioni, avvocata penalista e vicepresidente DiRe, che sottolinea comunque gli elementi positivi nella legge, a partire dalla necessità di formazione specifica per i magistrati, ma ribadisce la necessità di investimenti economici necessari per cambiare la cultura del Paese.
«Trovo positivo – spiega l’avvocata – che siano stati introdotti correttivi che erano già stati segnalati, come l’ampliamento del ruolo della persona offesa o le maggiori informazioni per la donna che subisce violenza o l’intervento in caso di patteggiamento, modifiche senz’altro utili». Ma, a suo avviso, esiste una «problematicità per la definizione di femminicidio» nel testo così come è costruito e che potrebbe rendere difficile dal punto di vista processuale «provare che quella singola azione, che quel soggetto aveva quella intenzione discriminatoria o l’intenzione di annientare la personalità della vittima». Più «interessante l’aggravante della discriminazione nei casi di maltrattamento e di stalking». Conclude quindi con l’auspicio che i centri siano coinvolti non solo nelle audizioni ma in un ampio dibattito.
Anche per Lella Palladino, fondatrice della Cooperativa Eva che gestisce una rete di centri antiviolenza in Campania, «è una svolta riconoscere il reato come reato in sé e, soprattutto, come figlio di una discriminazione. D’altra parte non posso non ricordare che il problema è il cambiamento culturale e che non bastano le leggi in ottica repressiva, la deterrenza non può essere fattore di cambiamento ». Per Palladino, va preso quel che c’è di positivo ma serve che le donne «siano incluse nel mercato del lavoro, nei luoghi decisionali e per questo servono investimenti. Una legge buona, per molti aspetti, ma non sufficiente perchè nel contrasto alle disuguaglianze di genere non vediamo grandi cambiamenti».
Teresa Manente, avvocata penalista e responsabile legale dell’associazione Differenza Donna invece ritiene positiva l’introduzione del reato di femminicidio «perché segna un momento di svolta nel riconoscimento giuridico della violenza di genere. Pone al centro la libertà delle donne come bene giuridico fondamentale riconoscendo che la violenza di genere trova la sua radice culturale in un sistema di matrice patriarcale che limita la libertà e i diritti e la vita delle donne, fino al loro annientamento fisico». Manente concorda sul fatto che il «penale non sia la risoluzione del problema, ma – afferma – è necessario nel quadro attuale delle regole sociali e giuridiche della convivenza in cui la parola delle donne non vale soprattutto quando si tratta di fare giustizia».
Anche per l’avvocata, la discussione parlamentare di questo disegno di legge potrà contribuire «a creare maggiore consapevolezza sulla matrice culturale del fenomeno sociale della violenza maschile contro le donne, e sarà l’opportunità per aprire una riflessione piu ampia sul codice penale italiano che ancora definisce l’omicidio come la condotta di chiunque uccide un uomo laddove sarà necessario modificarlo con la parola persona. Sappiamo – conclude – che le leggi da solo non bastano, servono certamente investimenti, ma le leggi rappresentano uno dei tasselli necessari per contrastare e prevenire questi crimini che ancora oggi vengono giustificati e minimizzati a causa di stereotipi e pregiudizi sessisti contro le donne».
Rilievi che riguardano la possibile tenuta costituzionale del testo arrivano da Nicoletta Parvis, avvocata penalista esperta in violenza sulle donne, perché la fattispecie potrebbe non rispettare «il dettato dell’art. 3 della Costituzione, ponendosi a sfavore sia del genere maschile, sia di altre categorie di soggetti fragili». Parvis ricorda anche la trascurabilità dell’effetto deterrente: «Chi è intenzionato a uccidere una donna in quanto donna non viene certo dissuaso da una previsione sanzionatoria più alta, fosse anche l’ergastolo (che oltretutto non soddisfa la finalità rieducativa della pena)». Infine, per Parvis un problema è dato dalla eccessiva indeterminatezza della descrizione della condotta di femminicidio, che lascerebbe al giudice un eccessivo margine di discrezionalità, mentre è positiva la valutazione sulle disposizioni che prevedono una stretta in tema di misure cautelari, la possibilità per la persona offesa di interloquire nel patteggiamento e il rafforzamento degli obblighi formativi dei magistrati. Servono, ribadisce, investimenti in «educazione alla parità di genere, rieducazione sociale, percorsi di specifico recupero, sportelli di ascolto, centri antiviolenza. La strada verso la soluzione del problema è il cambiamento culturale, prevenzione in primis: la repressione ha importanza secondaria», conclude.
I dubbi di incostituzionalità e l’importanza della formazione
Il tema della tenuta costituzionale ritorna spesso. Carla Bassu, professoressa ordinaria di diritto pubblico comparato all’Università di Sassari sottolinea «la portata simbolica del disegno di legge e da questo punto di vista può essere importante: a differenza di quanto accaduto in Argentina, dove il presidente Milei ha annunciato di voler cancellare il reato, è un segnale in una direzione chiara». Tuttavia, prosegue Bassu, è evidente che ci sia un «problema costituzionale che sarà oggetto di discussione e che dovrà essere affrontato. La domanda che ci dobbiamo porre di fronte a una nuova norma, sottolinea, «è a cosa serve e cosa è e la riflessione può riguardare l’effetto deterrente che, come sappiamo e come ci dicono i numeri, finora non ha funzionato. Certo è che in questo caso le norme sono più avanti della società e, in un certo senso, questo può servire da pungolo».
Per Irene Pellizzone, professoressa associata diritto costituzionale all’Università degli Studi di Milano, delegata della rettrice alla prevenzione del fenomeno della violenza di genere, «dal punto di vista costituzionale un primo possibile rilievo riguarda il fatto che viene prevista una pena più elevata in ragione del genere. Nel caso di violenza sessuale con vittima un minore, per esempio, abbiamo un’aggravante e non una fattispecie a sé». Un secondo elemento potrebbe essere la necessità di «provare fattualmente che il reato è stato commesso per questo motivo, affidando così una discrezionalità al giudice anche ampia, perché deve provare che si tratta di un atto frutto di discriminazione o odio». La terza considerazione, prosegue Pellizzone, «attiene al fatto che si utilizza il diritto penale in chiave simbolica mentre il diritto penale dovrebbe essere l’estrema ratio». Un elemento da sottolineare come molto positivo è la previsione della formazione dei magistrati, «fondamentale» perché diventa obbligatoria e focalizzata sulla vittimizzazione secondaria.
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Se stai subendo stalking, violenza verbale o psicologica, violenza fisica puoi chiamare per avere aiuto o anche solo per chiedere un consiglio il 1522 (il numero è gratuito anche dai cellulari). Se preferisci, puoi chattare con le operatrici direttamente da qui.
Puoi rivolgerti a uno dei numerosi centri antiviolenza sul territorio nazionale, dove potrai trovare ascolto, consigli pratici e una rete di supporto concreto. La lista dei centri aderenti alla rete D.i.Re è qui.
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