Carceri, cosa accade davvero quando “Mamma è in prigione”

Che cosa succede quando una donna, e madre, deve scontare una pena in carcere? Risponde in maniera esaustiva il libro inchiesta “Mamma è in prigione” (editore Jaca book) di Cristina Scanu, che permette di seguire dall’interno, con una struttura molto chiara suddivisa in sezioni, tutto l’iter legato alla carcerazione femminile. Una questione tornata prepotentemente di attualità ora che il disegno di legge Sicurezza, per volontà della maggioranza, propone di cancellare l’obbligo di rinviare la pena per le madri con figli sotto l’anno di età sancendo lo slittamento solo facoltativo, come già avviene per le mamme di bambini tra 1 e 3 anni. Anche i neonati, dunque, rischieranno di muovere i primi passi nel mondo nel buio di una cella.

La scelta dell’autrice di intervistare sia chi sta scontando o ha scontato una pena sia chi si trova dall’altra parte (educatori, agenti, mediatori, psicologi) offre un quadro completo della situazione in Italia, non solo dal punto di vista burocratico, ma anche umano. Il dolore di una madre che deve portare dietro le sbarre un figlio o una figlia o li deve lasciare fuori, senza riuscire a spiegare (per pudore o per incapacità di porre a un bambino una questione gigantesca nel modo meno traumatico possibile) il motivo dell’allontanamento, è tangibile nelle parole delle intervistate.

Voce alle «donne più disgraziate del Paese»

Il libro, pubblicato nel 2013, rappresentava il primo studio sulla situazione carceraria delle donne dopo tanti anni. L’intento primario era di far conoscere un argomento di cui si parla poco dalla viva voce da chi ci sta passando o ci è passata: «Sono le donne più disgraziate del Paese. Quelle che non hanno scelta: se sei in carcere e hai un figlio sotto i tre anni che nessuno può tenere e non vuoi darlo in affido perché hai paura di perderlo, sei obbligata a tenerlo con te. Condannato all’umido delle celle e al sole visto a spicchi dietro sbarre arrugginite».

Molto chiara è anche l’intenzione sociale; il libro si apre con un appello alle istituzioni affinché prendano in carico una questione così complicata: «In Parlamento non ci sono mai state tante donne. Non so quante di loro siano madri. Ma so che, all’uscita del libro, ognuna di loro ne avrà ricevuto un estratto. Le voci rotte dei bambini che ho incontrato sono un grido che le sfida. Nella speranza che non termini l’ennesima legislatura con quei piccoli dietro le sbarre».

A che punto siamo, dieci anni dopo l’inchiesta di Cristina Scanu?

È interessante capire se e come questo appello (che esprime anche un sentire comune) sia stato recepito, cosa sia realmente cambiato in dieci anni. La stessa autrice, che non ha mai smesso di seguire la questione, ha recuperato per Alley Oop dati e progressi, ove ce ne siano stati, ed emerge un panorama non molto diverso dal 2013, come testimoniato anche recentemente dalle indagini dell’Associazione Antigone, che svolge un prezioso lavoro di ricerca sul pianeta carcere.

Anche oggi – e finché il Ddl sicurezza non diventerà legge (al momento è all’esame del Senato in seconda lettura) – le madri beneficiano del rinvio della pena se i figli hanno meno di un anno e invece corrono il pericolo di finire dietro le sbarre con i bambini da 1 a 3 anni. Secondo i dati del ministero della Giustizia, al 31 agosto scorso le mamme in carcere erano 18, con 21 figli al seguito. Con la nuova norma, potrebbe, dunque, amplificarsi il problema che l’inchiesta di Scanu solleva grazie alla sua ricerca sul campo: una madre può godere in teoria degli arresti domiciliari, ma se non ha una residenza ufficiale o una famiglia, come accade a tante donne straniere, non può che finire in cella con i bambini.

I figli si ritrovano a essere piccoli carcerati, pur non avendo pene da scontare. Condizione che potrebbe persino diventare “accettabile” se solo venissero garantiti spazi di gioco, o il semplice diritto di frequentare nidi e scuole materne esterne al carcere. Ma i soldi a disposizione del sistema carcerario sono stati e sono sempre pochi e spesso i tagli riguardano proprio i servizi accessori, come il pulmino che dovrebbe accompagnare i bimbi a scuola o le ludoteche attrezzate dentro le strutture o ancora i corsi di formazione per le donne, che dovrebbero prepararle a un nuovo ingresso in società.

Non punizione, ma riabilitazione, nuovo ingresso alla vita sociale

Un aspetto che Scanu sottolinea a gran voce, ma che lascia trasparire tutto il carico di emozioni che un incontro “fuori dalle cronache”, immerso nella vita reale di queste donne, può comportare, è che si è persa di vista, negli anni, la reale finalità dell’esperienza carceraria: la riabilitazione e quindi la formazione di chi sta scontando una pena.

La riforma penitenziaria del 1975 ha ribadito il fine rieducativo dell’esperienza carceraria sancito dall’articolo 27 della Costituzione, sottolineando che «nei confronti dei condannati e degli internati deve essere attuato un trattamento rieducativo che tenda, anche attraverso i contatti con l’ambiente esterno, al reinserimento sociale degli stessi. Il trattamento del condannato è svolto avvalendosi principalmente dell’istruzione, del lavoro, della religione, delle attività culturali, ricreative e sportive».

E invece si scopre, leggendo le testimonianze, raccolte ed elaborate con garbo e attenzione dall’autrice, che non è proprio così, e ancora oggi mancano gli spazi adibiti alla formazione delle detenute, che solo in poche strutture vengono organizzati laboratori (spesso sono associazioni di volontari a occuparsene), corsi professionali, seminari e incontri che possano essere utili e per rendere il percorso formativo, riabilitativo, più che punitivo.

Con sorpresa, si apprende che per tante donne anche l’idea di uscire dal carcere, a un certo punto, rappresenta una fonte di ansia, angoscia, perché significa lasciare un ambiente in qualche modo protetto da schemi, orari, attività (seppure poche), abitudini e tornare in un mondo al quale sono completamente impreparate. Chi delinque ha bisogno di ricostruire una vita diversa da quella che ha lasciato, allontanarsi da un ambiente che, per mancanza di risorse, di assistenza, le ha portate a rubare, spacciare, prostituirsi. Quindi hanno bisogno di strumenti (il lavoro prima di tutto, ma anche una forte consapevolezza di sé) che le aiutino a tornare a una vita dignitosa.

Gli Icam e la mancanza di fondi per avviarli

Sono necessari anche ambienti che favoriscano la convivenza di mamme con i bambini piccoli, nei quali la vita del minore non venga completamente stravolta; in Italia esistono gli Icam, Istituti a custodia attenuata per detenute madri, ma sono ancora troppo pochi e non possono accogliere tutte le donne che ne avrebbero diritto; queste “case famiglia protette” erano poche nel 2013 e ancora oggi sono soltanto cinque (Milano, Cagliari, Venezia, Lauro e Torino) e due nuove sono state aperte, a Roma e Milano, grazie all’Associazione Ciao e alla Cooperativa Alice. Lo Stato, infatti, ha difficoltà a reperire o destinare finanziamenti per aprire nuove case famiglia e forse non se ne sente, oggi, nemmeno l’esigenza.

È del Pd l’ultima proposta (a prima firma Debora Serracchiani) per il finanziamento pubblico alle case famiglia protette, ritirata per la mole di emendamenti peggiorativi della maggioranza; la Lega infatti ha negato la validità del differimento della pena per le donne incinte o con figli minori di un anno in quanto «essere incinta e/o madre di bambini piccoli non può essere il passepartout per le borseggiatrici abituali e professionali per evitare il carcere e continuare a delinquere» (queste le parole di Jacopo Morrone e Ingrid Bisa, componenti della commissione Giustizia alla Camera, che hanno presentato la proposta di modifica all’articolo 146 del Codice penale, che sancisce il rinvio dell’esecuzione della pena in caso di gravidanza o bambini molto piccoli). Lo stesso principio è alla base della norma del Ddl Sicurezza approvata alla Camera.

Una questione lontana dalle Istituzioni

Le istituzioni apparivano, dieci anni fa come oggi, lontane, anche nella concezione del carcere. L’aspetto emotivo delle detenute viene poco considerato e le condizioni sanitarie sembrano non essere una priorità del sistema. Colpisce leggere che ogni detenuta ha a disposizione uno spazio di sei ore al mese per i colloqui con i familiari, che spesso avvengono in una stanzetta affollata, e attraverso un vetro, anche se si è in carcere per reati minori. Non si riesce a creare continuità con l’esterno, i legami pian piano – a meno che non si abbia una famiglia veramente solida, che non accusi il colpo, alle spalle – si dilatano, si affievoliscono; si diventa estranei e si iniziano ad avere rapporti più profondi con le compagne di cella che con mariti e figli. Questo porta a un grande senso di solitudine, spesso anche alla depressione, e in carcere non ci sono abbastanza mezzi per affrontare il disagio. Gli psicologi sono pochi, i momenti di svago rari.

Perfino chi sta male deve assecondare le procedure burocratiche

«Il carcere è un ambiente insano, affollato. Per questo il medico può stabilire che alcuni soggetti scontino la pena fuori, in ospedale o in altro luogo idoneo. Lo avevano stabilito per Stefania Malu, settantanove anni, detenuta di Cagliari, gravemente malata e con un figlio disabile cinquantaduenne da assistere. Ma così non è stato, nonostante le sue condizioni di salute, legate anche all’età, fossero già gravi al momento dell’arresto. Per ottenere gli arresti domiciliari ha dovuto aspettare ventidue mesi…»

Sono trascorsi undici anni da quando il libro di Scanu è stato pubblicato, ma la questione carceraria, soprattutto se riguarda le donne, rappresenta sempre un vulnus. C’è ancora tanta strada da percorrere per arrivare a un assetto dignitoso degli istituti penitenziari e all’allestimento di un numero sufficiente di Icam per accogliere tutte le mamme con bambini piccoli.

Questo libro favorisce un’immagine netta e precisa di un sistema che andrebbe, ancora, oliato, aggiustato, che vive di vecchie consuetudini e non riesce a guardare veramente al futuro trincerandosi dietro il classico “non ci sono i fondi” e lasciando che le detenute, e spesso anche i bambini, vivano in condizioni critiche e che escano completamente impreparate e non formate per una nuova vita sociale e professionale.

Un romanzo importante, per chi invece volesse rimanere in argomento, è “Il corpo docile” di Rosella Postorino (uscito in edizione tascabile per Feltrinelli nel 2022 e pubblicato per la prima volta nel 2013). La storia parte proprio dall’incontro di un giornalista, in cerca di storie e risposte, con una donna che ha vissuto i suoi primi anni in carcere con la madre e che ai bambini rinchiusi come è stata lei dedica tutto il suo tempo.

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Autore: Cristina Scanu
Titolo: “Mamma è in prigione”
Editore: Jaca book (2013)
Prezzo: 15 euro

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