Lavoro, quanto siamo coinvolti in quello che facciamo

Solamente l’8% di chi lavora si dichiara attivamente coinvolto in ciò che fa.
È quanto emerge sull’Italia dall’edizione di quest’anno del Gallup State of the Global Workplace, analisi che riguarda 90 Paesi nel mondo.
Un dato decisamente basso, che tuttavia riscontra una leggera impennata rispetto all’anno scorso, fermo al 5%. In ogni caso, nulla a che vedere con la media globale, che si assesta al 23%, grazie anche a nazioni come Romania, Albania e Islanda, nei quali il tasso di coinvolgimento raggiunge rispettivamente il 36%, 27% e 26%. Risultati, questi, che si riflettono tanto sul benessere dell’azienda quanto su quello della persona.

L’impatto sull’azienda

Le aziende appartenenti ai Paesi nei quali le persone riportano livelli di ingaggio più alti, raggiungono mediamente il 23% di profittabilità in più, unitamente al 78% di assenteismo in meno. A risentirne positivamente è anche il turn-over, che diminuisce del 21% nelle realtà ad alto ricambio e addirittura del 51% in quelle a basso. A queste evidenze, si aggiunge infine un’inflessione del 63% per quanto riguarda gli incidenti.
Questi risultati dimostrano quanto il coinvolgimento delle persone sia intrinsecamente legato alla performance e ai risultati dell’azienda, mettendo in luce la necessità di promuovere iniziative volte a potenziarlo. Anche con l’obiettivo di ridurre i costi associati alla sua assenza. A tal proposito, infatti, Gallup stima che il basso ingaggio delle persone costi a livello globale 8.9 trilioni di dollari l’anno, che corrispondono al 9% del PIL.

L’impatto sulla persona

Le persone attivamente coinvolte nel loro lavoro sono anche quelle che sperimentano sentimenti di gioia e piacevolezza, i quali a loro volta influenzano positivamente lo stato di benessere individuale.
Al contrario, chi percepisce basso ingaggio esperisce stress, tristezza, solitudine, rabbia e preoccupazione. Vissuti, questi, che non sono solamente correlati al basso coinvolgimento, ma anche a reazioni di vera e propria opposizione alla realtà organizzativa che si abita. Con importanti conseguenze non solo sul benessere individuale, ma anche su fenomeni come dimissioni e assenteismo. A tal proposito, Gallup riporta che il 41% delle persone a livello globale cambierebbe lavoro e/o lo sta attivando cercando.

La situazione in Italia

Il nostro paese, come già anticipato, ha uno dei tassi di coinvolgimento più bassi a livello globale. A questo, si aggiungono percentuali importanti di vissuti come stress e tristezza. Questi, vengono quotidianamente esperiti rispettivamente dal 46% e dal 25% delle persone. Più bassi sono invece i sentimenti di rabbia, che raggiungono l’11%, contro una media globale del 21%.
Un risultato che tuttavia potrebbe mettere in luce un quadro meno roseo di quanto appare a un primo sguardo. Alti livelli di stress accompagnati a moderati livelli di tristezza e bassi livelli di rabbia, infatti, restituiscono sentimenti di rassegnazione ed esaurimento. La rabbia, a differenza della tristezza, è un’emozione tendenzialmente rivolta all’azione. In questo caso, prevale invece l’avvilimento.

Quello che trasversalmente emerge dal report di Gallup, è la necessità – anche in ottica di business – di potenziare l’engagement, investendo in soluzioni che non solo facciano sentire coinvolte le persone, ma che le facciano anche stare bene.
Per molto tempo – a torto o a ragione – si è dato per scontato che il lavoro, di per sé, permettesse di “sentirsi parte”. Oggi, sappiamo che non è più così.

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  • Luca |

    non credo si otterrà mai nula finche si continua a parlare di “engagement”. Il termine fa riferimento a una cultura e a una visione della vita ben diversa da quella Italiana. così piantato nel nostro paese senza radici e ramificazioni ha ben poco senso. Penso invece che si debba parlare di coinvolgimento e partecipazione. Al contrario di “engagement”, queste, non rimandano a ingaggiare; non ricordano le famose “regole di ingaggio” militari. Quindi non sono sinonimo di “ingaggiare un soggetto ostile”; ma rimandano alla partecipazion nssieme a qualcosa di più grande. La rassegnazione credo dipenda proprio da questo. Dal sentirsi impotenti meri esecutori di logiche spesso tutt’altro che illuminate

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