Il rischio è quello di trovarsi in un nuovo anno che assomigli in tutto e per tutto al vecchio. Più che di un pericolo percepito, si tratta di un’intuizione che si traduce in un sottile senso di minaccia, e potrebbe rimanere tale se non ci diamo la possibilità di fare un’attività che nelle transizioni è fondamentale: quella di onorare ciò che è stato. L’anno che finisce non ha una sua festa: la festa di fine anno è in realtà uno speranzoso benvenuto all’anno che viene, con tutte le sue possibilità ancora inesplorate.
Festeggiamo l’anno nuovo che arriva quando ancora non lo conosciamo e lasciamo andare via un anno pieno di noi, senza prendere coscienza di quanto resti ancora dentro di noi. E’ questa la funzione del “lasciar andare” nel cambiamento: non tanto e non solo staccarsi da ciò che è stato e non è più, quanto riconoscere nella fine l’ultima parte, fondamentale, di una storia che, senza quella fine, non esisterebbe. E’ arrivato alla fine e quindi è stato, e adesso è come un capitolo chiuso, una storia completa.
Merita di essere letto così e adesso l’anno che finisce, cosicché la sua storia entri a far parte della nostra. Ma culturalmente non facciamo niente del genere: noi siamo quelli del “domani è un altro giorno”, sempre occupati a costruire un futuro migliore, e non ci siamo dati dei riti per onorare il passato, soprattutto quello recente, quello che fino a un attimo fa era presente.
Che ce ne facciamo del vecchio calendario?
Trecentosessantacinque caselle si sono riempite di riunioni, progetti, appuntamenti, momenti, sorprese e delusioni, affanni e speranze, e a una a una le abbiamo spuntate, sempre guardando avanti. L’anno, con i suoi trimestri e le sue stagioni, sembra quasi un progetto da gestire, un gantt di attività da distribuire e misurare e, come avviene con molti dei progetti su cui lavoriamo oggi, col passare del tempo diventa meno interessante, al punto che ne apriamo felicemente uno nuovo senza sapere se quello vecchio lo abbiamo davvero concluso.
Iniziamo sempre, perché iniziare è facile e bello, è pieno di promesse. Ma è finire, la vera sfida, e potrebbe essere altrettanto bello, se solo ci facesse meno paura. Ci spaventa perché lo pensiamo come un “bilancio di fine anno”, invece è proprio una celebrazione di quel che è stato, bello e brutto. Come il trapezista che, lasciando un trapezio per raggiungere l’altro, lo guarda con gratitudine per averlo portato fin là.
Grazie per “essere stato”
Ecco, forse la parola giusta è “gratitudine”: alle cose, alle persone, agli eventi e alle nostre stesse risorse, che ci hanno portati fin qua, potremmo dedicare un momento di attenzione, che ne completi il senso, riconoscendone la fine. Allora li avremmo davvero visti e sarebbe più difficile trovarci a ripetere tutto in modo uguale: ogni cosa, nel nuovo anno, sarebbe nuova, una storia che si aggiunge a una storia che è finita e che avrà la fortuna anche lei, quando arriverà alla fine, di essere onorata e vista nella sua interezza.
Vecchio come “vecchio amico”, vecchio come familiare e vissuto: il vecchio anno dovrebbe quindi avere la sua festa, un momento dedicato solo ed esclusivamente a lui. In cui incassare le delusioni, controllare le ferite, festeggiare gli scampati pericoli e rammaricarsi per quelli non scampati, ma anche ricordarsi dei doni, dei successi e delle belle sorprese, e congratularci con noi stessi e con gli altri per essere arrivati fin qui. Senza qualche rito che rappresenti il movimento del lasciar andare, il nuovo non può arrivare, ed è per questo che potrebbe sembrarci che non sia cambiato niente: che il nuovo anno sia solo un nuovo numero e che i gantt riprendano sempre uguali, in un modo ricorrente e senza fine.
Abbiamo ancora qualche giorno per festeggiare l’anno che va e accorgerci di quante cose ci lascia, di quanto sia pieno di noi e dei sogni passati, della fatica e dell’impegno con cui abbiamo riempito ogni casella: se ci daremo il tempo per vederlo anche come il frutto del nostro lavoro, onoreremo insieme al tempo che passa anche l’opera che rappresenta, di cui siamo artisti, col pennello in mano, pronti a darci da fare su una tela nuova.
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