“Praticare qualsiasi disciplina sportiva può essere un ‘ponte’ per due dimensioni di noi stessi: la parte negativa e quella positiva. Tutto poi si ripercuote nella vita reale. L’ho provato sulla mia pelle e ne sono convinta! Spesso con la disabilità si tende a non vedere quel ponte. Un buon punto di inizio è buttarsi in qualche sport che incuriosisce. Non so perché… ma cambia la prospettiva di vedere le cose”.
A parlare è Maria Caponio: una ragazza di ventiquattro anni affetta dalla malattia di Charcot-Marie-Tooth tipo 4°, diagnosticatale a Milano solo quando aveva tredici anni. La cmt4a non perdona e colpisce gravemente l’apparato motorio, così la dipinge Maria: “La mia è una forma molto più aggressiva rispetto alle altre ed è per questo che, quando la malattia si è risvegliata nel giro di pochi mesi mi ha dato come regalo la carrozzina. Non è un caso se ho utilizzato la parola ‘regalo’ perché quando ho capito davvero cosa potesse regalarmi mi sono resa conto di aver passato anni a vedere solo il bicchiere mezzo vuoto. Ho perso un sacco di esperienze e occasioni per i limiti mentali che io (influenzata dagli altri) mi son posta”.
All’inizio non è stato facile accettare gli effetti della malattia. Vivere in Puglia, secondo Maria, è stato un aggravante: “Gli sguardi, gli atteggiamenti, i modi di approcciarsi o di vederti non aiutano la situazione e tendono a demolire quella piccola autostima che ognuno pian piano costruisce e così si finisce per stare giorni interi in casa a vedere serie tv e dormire. Inoltre c’è poca possibilità di fare sport e per me lo sport è una delle cure per l’anima di una persona”.
In quegli anni per Maria sedere su una carrozzina significa essere compatita. Ha l’impressione che le persone le si avvicinino solo perché si sentono in dovere di aiutarla, lei reagisce con diffidenza, non ha fiducia, perché in primis non ha fiducia in sé stessa: non sa ancora cosa è in grado di fare.
Arriva il momento in cui non ce la fa più, si sente soffocare e si accorge che la sua vita non può essere immobile come quella carrozzina, comincia ad ascoltare sé stessa e non i limiti imposti da altri da cui si fa condizionare, perchè come racconta: “ho iniziato a fare un po’ di testa mia, a impormi con le mie idee, a decidere io cosa fare, quando e come. Poi ho iniziato a perseguire l’autonomia, a trovare metodi alternativi per fare le cose. C’è stata la mia ‘svolta’ ho acquistato autostima, sicurezza e determinazione. Ciò che mi circondava non aveva più peso e ho iniziato a dare importanza a me, alle mie passioni e ai miei obiettivi. È impressionante quanto la forza di volontà sia potente. Se c’è, ci si approccia in modo differente e positivo alle difficoltà e con un po’ di inventiva si risolve tutto. Spesso mi son ritrovata, soprattutto all’inizio, davanti a problemi che mi hanno impegnata anche per settimane. Risolvevo e andavo avanti con altri…diciamo che mi son posta una serie di obiettivi da soddisfare e pian piano li ho raggiunti. (Nel nostro caso anche aprire una bottiglia è un problema all’inizio)”.
Durante gli anni universitari Maria viaggia e assaggia la voglia di libertà e autonomia sempre di più. Si laurea in tempi da record e nel 2016, nel giro di un mese fa armi e bagagli e si trasferisce a Milano. Proprio nella città meneghina contatta la squadra di Milano di rugby in carrozzina che la accoglie e la butta letteralmente in campo senza esperienza, le sue parole trasmettono il carico di entusiasmo che l’esperienza del rugby ha dato all’avventura di Milano: “mi sono innamorata di questo sport. Son partita da zero, con zero esperienza di gioco di squadra. Ho iniziato ad allenarmi con puntualità e determinazione e pian piano mi son vista migliorare. Io penso che la squadra sia come un mosaico…se tutti i tasselli vanno al posto giusto il risultato è stupendo. Se solo un tassello è fuori post, il risultato non sarà lo stesso. Essere il tassello giusto è impegnativo e quando con la squadra raggiungiamo vittorie e risultati positivi è una sensazione bellissima. Far parte di una squadra accresce l’autostima quasi senza accorgersene. Sei in campo e sei un’atleta, in quel momento la disabilità passa in ultimo piano. La cosa che conta in campo è dare il massimo, indipendentemente dalle difficoltà di ognuno di noi”.
Per la cronaca il rugby in carrozzina o Wheelchair Rugby nasce in Canada nel 1977 come alternativa alla pallacanestro in carrozzina. Nel 1981 conquista gli Stati Uniti dove viene riconosciuta ufficialmente a livello internazionale con la nascita della IWRF, Federazione Internazionale di Rugby in Carrozzina; l’anno successivo verrà riconosciuto anche dal IPC, Comitato Internazionale Paralimpico. Nel 1995 si sono svolti i primi Campionati Mondiali in Svizzera . Due squadre di quattro giocatori ciascuna che si affrontano e devono portare il pallone di forma rotonda oltre la linea di meta avversaria. Anche in Italia sta prendendo piede questa disciplina, lo scorso anno infatti c’è stato il primo campionato italiano e quest’anno son state previste quattro tappe, due già fatte a Verona e Cittadella, la terza è a Milano in questi giorni: il 16 e 17 giugno e poi la finale sarà l’ultimo week end di settembre a Roma.
La sete di autonomia, il trasloco a Milano, il rugby hanno acceso la miccia in Maria, che ora si è anche ‘buttata’ nel paracadutismo e ogni tanto si regala qualche lancio. Chi la ferma più? Maria mi fa una battuta, d’altronde anche il rugby è nato grazie ad un atto rivoluzionario: il primo Novembre del 1823 il giovane William Webb Ellis durante una partita di calcio giocata sul prato della Public School di Rugby, prese la palla con le mani (all’epoca consentito dalle regole) e corse fino alla fine del campo avversario (non lecito) …così lei ha preso la sua carrozzina ed è andata a Milano contro tutte le aspettative, un gesto rivoluzionario e di coraggio, Maria sottolinea infatti che: “è un concetto che va applicato alla vita di tutti. Avere la forza di cambiare ciò che non va e che non ci soddisfa, anche una piccola cosa, può scaturire un effetto cascata bellissimo che porta a cose meravigliose. Ovvio, i momenti negativi ci sono, ma l’importante è che non vadano a sopraffare tutto ciò che di bello c’è. Io ho cambiato tutto più per paura che per altro. Il coraggio è stata più una conseguenza della mia paura. Avevo paura di restare nella situazione di stallo in cui ero, di non poter vivere la mia vita come volevo, di non poter avere opportunità e di non poter sfruttare il mio tempo, tempo che per anni ho sprecato senza far nulla per me”.