
Non ci sono numeri precisi, non c’è una banca dati istituzionale condivisa. La tragica conta dei femminicidi in Italia si fa a spanne. Perché non c’è una definizione di femminicidio uguale per tutti e a tutti i livelli, perché il minsitero dell’Interno ha scelto di far passare da settimanale a trimestrale il rapporto sugli omicidi volontari (che contiene uno spaccato degli omicidi per genere e per relazione vittima-autore), perché il lavoro (gigante) delle associazioni che raccolgono i casi dai media non basta. Non avere numeri significa non partire da un dato oggettivo e condiviso, significa un ostacolo in più nella definizione di politiche efficaci e mirate e l’impossibilità di misurare l’efficacia di quelle in essere. Significa, ancora una volta, sottovalutare un fenomeno strutturale che la nostra società non riesce a eradicare. Parte da qui l’analisi di Donata Columbro, divulgatrice espera di dati, che raccoglie nel suo ultimo lavoro – “Perché contare i femminicidi è un atto politico – le esperienze internazionali su questo tema e fa il punto sulla situazione nel nostro Paese.
Perché contano i dati
Partendo dal termine femminicidio e dal suo utilizzo che si è andato diffondendo man mano, Columbro spiega quanto i numeri abbiano contribuito ad aumentare la consapevolezza sulla violenza di genere. «Le prove statistiche per raccontare che i femminicidi sono un’emergenza sociale e un fenomeno ancora ben radicato nella nostra società – riusciamo a rimanere su numeri che sono sui cento all’anno, circa – dipendono dal fatto che i dati sulle violenze di genere prodotti dai centri antiviolenza e dall’Istat hanno aiutato molto a diffondere la consapevolezza e il ruolo degli stessi centri antiviolenza», dice.
Preoccupa e pone molti interrogativi la decisione di quest’anno del ministero dell’Interno di interrompere la pubblicazione dei dati settimanali sugli omicidi volontari e passare così a una pubblicazione trimestrale. Numeri, quelli del Viminale, che presentano comunque una serie di lacune e limiti (non parlano di femminicidi esplicitamente, ma di omicidi di donne in ambito familiare o per mano di partner o ex, per esempio), ma che hanno rappresentato negli ultimi anni quanto meno una indicazione di massima.
Ad oggi, i numeri sono fermi alla rilevazione al 7 luglio scorso, con i dati del secondo trimestre, che confermano comunque sostanzialmente i trend degli anni passati (52 donne uccise da inizio anno, 45 in ambito familiare e affettivo, con un un netto aumento degli omicidi di donne commessi da partner o ex, +21% da 28 a 34). Altre fonti utili possono essere i numeri raccolti dai centri antiviolenza e quelli dell’associazione Non Una di Meno, che rileva i casi dai media e li aggiorna sul suo sito ogni 8 del mese.
Altre iniziative, come quella del ministero della Giustizia di creare un Osservatorio sulla violenza di genere e domestica hanno avuto vita breve. L’Osservatorio sembra fermo al 2023, un anno dopo la sua istituzione.
Perché conta il “come” si raccolgono e si leggono i dati
Quindi Columbro spiega innanzi tutto perché contare i femminicidi è fondamentale – e quali sono le lacune (italiane e non solo) in queste statistiche – ma non si ferma qui: perché il “come” si contano fa la differenza. I numeri non sono neutri e il modo in cui le uccisioni delle donne per mano degli uomini vengono contate e considerate rispecchia quel sistema di stereotipi e pregiudizi in cui la violenza di genere affonda le sue radici. I dati non sono oggettivi, «non siamo di fronte a uno strumento di interpretazione del mondo che può essere utilizzato come uno scudo – dice Columbro – eppure questo si fa di continuo». I dati non possono parlare da soli, senza contesto, senza capire chi è coinvolto nella loro produzione e quali sono gli effetti che hanno nel momento in cui sono usati per prendere decisioni o per raccontare un fenomeno.
I dati, dunque, come prodotti sociali, dell’essere umano. Columbro spiega bene come sia difficile contare i fenomeni sociali e quanto questa difficoltà si applichi ai casi di femminicidio e, più in generale, di violenza di genere. Maria Giuseppina Muratore, sociologa e dirigente di ricerca dell’Istat esperta di violenza di genere, spiega per esempio il lavoro che ha richiesto la relazione sulla violenza sulle donne del 2006 e, in un passaggio, racconta quanto fosse difficile, per le donne intervistate, ammettere che la violenza subita arrivasse dal proprio partner. «Certe testimonianze erano inequivocabili, ma quando l’intervistatrice arrivava alla domanda esplicita se il proprio marito o compagno fosse una persona violenta molte donne rispondevano di no».
Ecco che diventa fondamentale la questione della consapevolezza e della conoscenza della complessità del fenomeno, per poterlo misurare, valutare e – solo così – sconfiggere. Insieme a quel negazionismo che ancora permane a troppi livelli.
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Titolo: “Perché contare i femminicidi è un atto politico”
Autrice: Donata Columbro
Casa editrice: Feltrinelli, 2025
Prezzo: 18 euro
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