
Il gender pay gap è vivo e in buona salute. Nel 2025 le donne continuano a essere pagate meno degli uomini in quasi tutti i settori, ovunque nel mondo. Anche a parità di titolo di studio e anche a parità di corso di laurea. Uno svantaggio, quindi, fin da “blocchi di partenza”.
Ne scriveva qualche tempo fa il Financial Times, secondo il quale nel Regno Unito le laureate partono in rincorsa dal momento in cui escono dall’università. Anche per lo stesso livello studio, i loro guadagni sono inferiori rispetto a quelli dei laureati in più di quattro quinti su tutte le materie considerate. Sempre secondo la analisi dell’Ft, entro cinque anni dal titolo di studio i laureati arrivano a un salario medio di quasi 35mila sterline. Mentre le laureate percepiscono in media 30mila e 400 sterline l’anno. In termini percentuali, oltre il 14% in meno degli uomini quindi.
Se, poi, una volta si pensava che il divario di genere fosse aumentato in particolare dal tipo di discipline scelte, i dati inglesi indicano altri possibili cause. Scrive il Ft, per esempio, come anche se studiano le stesse materie, dopo la laurea gli uomini «sono più propensi a dare priorità a una carriera redditizia e (arrivano) a guadagnare di più rispetto alle donne». Un esempio? I laureati in matematica. I ragazzi che effettuano questi percorsi, quando entrano nel mondo del lavoro si orientano più verso occupazioni nella programmazione – uno dei settori tra i meglio pagati in questi anni. Completato il percorso universitario, invece, le ragazze sono più propense a diventare insegnanti.
Anche a causa di queste scelte lavorative, a cinque anni dalla laurea mediamente le donne arrivano a guadagnare circa 15mila sterline in meno all’anno.
Una forbice che si va restringendo (di poco)
La situazione nel Regno Unito non è affatto unica. La parità retributiva di genere resta lontana ovunque. Addirittura, negli Usa ad esempio, secondo l’Institute for women’s policy research di fine 2024, «se il progresso continua alla stessa velocità che ha tenuto negli due decenni, ci vorrà fino al 2088 (prima che) si raggiunga l’equilibrio salariale» tra i generi.
Per quanto piccoli, comunque, ci sono stati negli ultimi decenni alcuni progressi. Se è vero infatti che, dati della Banca mondiale, le donne in media guadagnano 77 centesimi per ogni dollaro che finisce nelle tasche dagli uomini, la forbice si sta (lentamente) restringendo. Negli Stati Uniti, su tutta la popolazione dai 16 anni in su, si è passati dall’avere, nel 1980, le lavoratrici pagate il 65% di quello che venivano pagati i lavoratori, a una percentuale del 81% nel 2003. E dell’85% lo scorso anno[1]. Stando invece a quanto riporta l’Economic policy institute, nel 2024 le donne venivano pagate il 18% in meno rispetto agli uomini[2]
Non troppo diverse le cifre registrate in Uk. Qui il divario retributivo di genere su tutta la popolazione – a prescindere se con contratti full time o part-time -, si attesta appena sopra il 13%. Guardando alle sole occupazioni a tempo pieno, il gap invece si è ridotto negli ultimi dieci anni di un quarto. Ad aprile 2025, secondo i dati dell’ufficio nazionale inglese per le statistiche, si attestava al 7%. In ulteriore calo (per quanto solo dello 0,5%) anche sulle rilevazioni dell’anno precedente.

Anche dall’altro lato della Manica, nell’Unione europea, le percentuali appaiono non troppo dissimili: il gender pay gap, su base oraria, qui tocca il 12%. Una media che si è ristretta nel decennio 2013-2023 – per quanto di un misero 4%. Nonostante le grandissime differenze tra settori, titoli di studio e aree geografiche – in Lussemburgo lo scarto è quasi inesistente, anzi le donne sono pagate lo 0,9% in più, mentre in Lettonia la forbice sfiora il 20% – i dati europei confermano una tendenza comune: il divario cresce con l’avanzare dell’età dei lavoratori/lavoratrici. Seppure con andamenti diversi all’interno del continente, appare generalmente (molto) più basso a inizio carriera[3]. Mentre di va sempre più ad ampliare a partire dai 35 anni.
Nello specifico, tra i 25 e i 34 anni, il gender pay gap massimo è quello registrato in Bulgaria e arriva al 16,8%. All’opposto, il minimo ha il segno meno. In Belgio infatti in questa fascia di età arriva a -5%, ed è quindi a favore delle donne. Tra gli occupati 45-54enni, la disparità massima invece arriva a percentuali di oltre il 20%. In questo caso il record è della Svizzera (23,1%). Seguono Germania (22,8%), Repubblica Ceca (20,9%) e Ungheria (20,1%).
Con l’avanzare dell’età considerate, la forbice continua ancora ad allargarsi. Nella fascia oltre i 55 anni la differenza massima tra i compensi per i due generi è quella registrata in Germania dove raggiunge il 26,3%. Subito dietro, i numeri di Cipro (25,7%), Svizzera (25,2%) e Francia (21,4%). Scrive Eurostat: «Il divario retributivo di genere potrebbe aumentare con l’età a causa delle interruzioni di carriera che le donne (possono) sperimentare durante la loro vita lavorativa».

La crescita del pay gap di genere che segue l’aumentare delle fasce di età, si ritrova anche negli Stati Uniti. Secondo i dati 2024, infatti, le lavoratrici americane tra i 25 e i 34 anni venivano pagate 95 centesimi/dollaro – in crescita rispetto agli 88 centesimi registrati vent’anni fa. Se lo sguardo si allarga a includere tutta la popolazione attiva dai 16 anni in su, il compenso scende a 85 centesimi per ogni dollaro guadagnato dai lavoratori. Anche in questo caso però, in miglioramento nel tempo. Mediamente tutte le lavoratrici erano pagate 81 centesimi nel 2003.
La laurea per guadagnare meglio?
Accennavamo in apertura come anche laureate vanno incontro a gap retributivi quanto escono dalle università. Si registrano infatti divari anche all’interno degli stessi percorsi di studio. In un mercato del lavoro particolarmente competitivo, in cui oggi si è aggiunta la variabile dell’ai nel processo stesso di recruting, viene da chiedersi se laurearsi rappresenti la stessa garanzia di migliore occupazioni e guadagno del passato. Dati alla mano, a prescindere dal genere, la situazione non sembra in effetti evolvere più su una linea chiara e altrettanto orientata per forza verso l’alto.
Il Financial times indicava l’assottigliamento del “college wage premium”. In un mercato occupazionale che in Inghilterra ha raggiunto numeri minimi degli ultimi sette anni di posizioni aperte, il “privilegio” garantito dall’ottenimento di una laurea che un tempo distaccava anche significativamente le prospettive occupazionali tra laureati e non-laureati, non sembra avere lo stesso impatto.
Intanto, negli Usa, la disoccupazione tra i giovani con una laurea nella fascia 22-27 anni ha raggiunto il 6% – mai così altra dai tempi della pandemia. Una cifra che, inoltre, appare peggiore rispetto allo stesso dato ma sulla popolazione generale (in questo caso si aggira attorno al 4%).
Detto questo, comunque, se non è tanto “il pezzo di carta” di per sé a garantire un’accesso sicuro a posizioni meglio pagate, avere un bagaglio di formazione elevato svolge un ruolo chiave nella vita professionale, specialmente per le donne. Non solo perché se sono meglio preparate, possono più efficacemente discutere di soldi, prospettive di carriera e aumento dello stipendio. Ma anche proprio per aspirare a posizioni più alte e, in genere, meglio pagate. Non dimentichiamolo, tra l’altro, che le donne occupano percentualmente meno posizioni manageriali o ad avere ruoli decisionali.
Ci vorranno decenni per arrivare a una situazione di maggiore equilibrio di genere. Anche se i tanti piani e programmi locali, nazionali e internazionali si muovessero in modo più rapido ed efficace di quanto stanno facendo. Certo restano imprescindibili le leggi per la trasparenza salariale – come la Direttiva europea che entrerà in vigore dal prossimo anno -, le politiche di sostegno alla famiglia – dai congedi parentali al supporto per la cura dell’infanzia e dell’età anziana. Le iniziative delle aziende in tema equità retributiva e di azione intenzionale a favore delle lavoratrici per permettergli anche di competere su un campo di gioco livellato.
Ma il tutto deve procedere in sinergia. E accompagnarsi al crescere di generazioni di ragazze preparate ad affrontare le nuove sfide e accogliere le opportunità del mercato occupazionale.
Le laureate in Italia
Dato per appurato che titoli di studio superiori possono offrire generalmente migliori guadagni, in Italia persiste chiaramente uno scarto in questo senso. E su diversi livelli. Senza entrare in considerazioni sui ruoli sociali tradizionali e la distribuzione dei carichi in famiglia, solo guardando ai numeri di lauree conseguite appaiono alcune criticità. Anche sul confronto con i vicini europei. Il bel Paese «sconta un forte ritardo nei livelli di scolarizzazione sia per la popolazione adulta sia per quella più giovane», si legge nell’ultimo Rapporto AlmaLaurea sul profilo dei laureati italiani. Secondo i dati, infatti, lo scorso anno, nella fascia 25-34 le laureate rappresentavano il 31,6% della popolazione, lontano dalla media Ue del 44,2%. E tra tutti, meglio solo della Romania – che ha una quota inferiore al 25%.
Per quanto comunque ottenere un titolo di studio superiore aumenta la probabilità di occupazione e potenzialmente di stipendi più ricchi, esiste una differenza di retribuzione già dopo la laurea. Oltre al genere, in Italia ha un impatto differente anche in base alla Regione di provenienza. Come illustrato qui in dettaglio, una laurea, per esempio, sembra beneficiare in particolare le giovani donne del sud. Per quanto, non possiamo dimenticarlo, comunque a un anno dalla fine degli studi, il divario resta in tutti i casi a favore degli uomini.
Un po’ come per le studentesse inglesi, le italiane che escono dalle università hanno stipendi inferiori praticamente da subito. E per il resto della loro vita lavorativa. Ne da un quadro il Rendiconto di genere 2024 dell’Inps. Secondo i dati, in termini generali, su base mensile le lavoratrici sono pagate il 20% in meno rispetto ai lavoratori in quasi tutti i settori considerati. Con i picchi massimi registrati nelle professioni immobiliari (qui la differenza arriva al 39,9%), in quelle scientifiche e tecniche (35,1%) e nelle attività finanziarie e assicurative (32,1%).
Si legge nel documento Inps: «sul valore delle retribuzioni medie giornaliere incidono, oltre all’inquadramento contrattuale, anche elementi come i trattamenti individuali, il lavoro straordinario e il part-time». La situazione, inoltre, cambia in parte se poi si parla di impieghi in ambito pubblico o privato. Nel primo caso, infatti, la differenza è inferiore e gli stipendi «soffrono meno il divario di genere anche se, per servizio sanitario e università e altri enti di ricerca gli uomini percepiscono oltre il 20% in più rispetto alle donne».
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[1] Questi numeri si riferiscono al guadagno medio orario negli Stati Uniti per le lavoratrici come percentuale della media registrata, invece, tra i lavoratori.
[2] Dati ricavati dopo aver tenuto conto di razza, etnia di appartenenza, età, stato civile.
[3] Per quanto coprano la maggior parte delle nazioni europee, i dati Eurostat più recenti (2023) non includono le statistiche per alcuni stati Ue e non-Ue. Le percentuali riportate fanno riferimento ai Paesi come raccolte dall’istituto europeo di statistica.
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