Come lo stress da rientro può nascondere il burnout

Se l’ansia e la fatica che si sperimentano al ritorno dalle ferie non fossero passeggere, ma nascondessero qualcosa di più profondo?
Il cosiddetto “stress da rientro” è un’esperienza comune, spesso alimentata dalle caselle di posta piene, dalle riunioni che si sovrappongono e dal tempo che riparte più veloce di quanto si ricordasse. Una condizione psicologica solo apparentemente transitoria.

Non è solo il ritorno che pesa

La stanchezza che riaffiora così presto, appena dopo essere rientrati dalle vacanze, potrebbe rivelare un malessere più radicato. Una sensazione che non si è riusciti ad alleviare con due settimane al mare o il relax in montagna, ma che – semplicemente – era stata messa in pausa. Una sensazione che attraversa molte persone per la gran parte dell’anno: quella di aver consumato le risorse a disposizione.

Questo senso di sfinimento è uno dei sintomi più comuni della sindrome da esaurimento professionale. Sperimentarlo non significa automaticamente essere affetti da burnout, ma è importante riconoscerlo e tenerlo monitorato. Anche perché esperienze simili sono estremamente diffuse: secondo stime Gallup, coinvolgono il 76% dei lavoratori.

Il lato nascosto del burnout

Se i sintomi descritti sono così frequenti, non possiamo limitarci a considerarli su un piano solamente individuale. A tal proposito, una recente ricerca pubblicata su Culture, Medicine, and Psychiatry propone di considerare il burnout non solo un tema clinico e occupazionale, ma anche – e soprattutto – un fenomeno culturale. Una disfunzione del contesto in cui viviamo che genera sofferenza sociale. Una categoria, insomma, che può aiutare a comprendere il nostro rapporto con il lavoro in questa società.

Il burnout, infatti, va oltre la semplice fatica. Non si tratta solamente di “lavorare troppo”. Si manifesta quando il proprio impiego diventa parte integrante della propria identità e si fatica a mettere confini. Nel mondo iperconnesso di oggi, dove essere sempre reperibili e produttivi sembra misurare il nostro valore, la pressione – interna ed esterna – può diventare insostenibile. In questa prospettiva, dunque, il burnout si configura come un rischio intrinseco di un modello lavorativo che tende a spingere le persone oltre i propri limiti.

Il paradosso del rientro

Se il burnout è un riflesso della società in cui viviamo, allora lo “stress da rientro” diventa un microcosmo di questo fenomeno. Un segnale che ci ricorda che non è sufficiente “staccare la spina” per qualche settimana se, una volta tornati si rientra nello stesso meccanismo che si era così volentieri abbandonato in vacanza. La pausa estiva offre sollievo, ma rischia di essere solo un intervallo: la corsa ricomincia, più veloce di come l’avevamo lasciata.

Ecco allora che se le strategie personali aiutano – programmare un rientro graduale, fissare priorità realistiche, inserire pause – da sole non bastano. La letteratura mette in guardia: le azioni più efficaci sono quelle che combinano misure individuali e cambiamenti organizzativi. Rivedere i carichi di lavoro, introdurre politiche di work-life balance realmente efficaci e intervenire sugli assetti organizzativi sono alcuni degli elementi decisivi.

La domanda da cui partire è una: se il burnout è il segnale di una frattura tra chi siamo e le richieste della nostra società, non è forse arrivato il momento di ripensare il nostro rapporto con il lavoro? Non solo come individui, ma anche come aziende e come comunità.

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