La felicità non è per tutti, almeno non in Italia. Soprattutto, non sembra essere di casa tra giovani e donne. Ad alimentare il divario emotivo tra chi sorride e chi no, vi sono: insicurezza economica, solitudine e diseguaglianze sociali.
L’Happiness Index Report 2025 stilato da Ipsos intervistando oltre 23 mila persone in 30 Paesi al mondo, vede il nostro Paese in ventitreesima posizione, con appena il 6% delle persone che si definisce “molto felice” e un calo complessivo nell’indice di felicità del 8%, rispetto alla prima rilevazione effettuata nel 2011.
Più poveri, più tristi
Cosa rende gli italiani meno felici di un tempo? Senza dubbio, la dimensione economica. Per più di un italiano su due, i soldi sono motivo di insoddisfazione, preoccupazione verso il futuro e, di conseguenza, mancanza di felicità (52%). Un dato in linea con quanto espresso dal campione globale e che vale per ogni fascia di reddito. Non solo si dice infelice a causa degli scarsi guadagni il 38% di chi ha redditi bassi, ma anche il 29% di chi ha redditi medi e il 25% di chi ha redditi alti.
Del resto, nel 2023, le famiglie residenti in Italia hanno percepito un reddito netto medio di 37.511 euro, circa 3.125 euro al mese (Istat). Ma l’aumento dell’inflazione (+5,9%) ha eroso il potere d’acquisto, portando a un calo dei redditi delle famiglie in termini reali dell’1,6%. Dal 2007 al 2023, in particolare, il reddito familiare medio in Italia è diminuito dell’8,7%, con cali più marcati nel Centro (-13,2%) e nel Sud Italia (-11,0%).
Si può essere felici lavorando?
L’impatto sull’infelicità si rafforza ulteriormente se si guarda alla dimensione professionale: solo il 18% degli italiani intervistati da Ipsos ritiene il lavoro motivo di felicità, anche in questo caso in coerenza con le valutazioni espresse dagli intervistati/e nel resto del mondo. Eppure, l’importanza della felicità sul lavoro è ampiamente dimostrata: secondo uno studio congiunto di Harvard e MIT, una persona felice e appagata dal proprio lavoro è due volte meno assente, nove volte più fedele all’azienda, il 31% più produttiva e il 55% più creativa. Il livello di felicità è, infatti, un fattore determinante anche nella decisione di rimanere o lasciare un posto di lavoro.
«Questi dati rivelano una verità scomoda: la ricchezza non garantisce la felicità, ma la sua mancanza sicuramente contribuisce all’infelicità. È preoccupante vedere come l’insicurezza economica pervada tutte le fasce di reddito in Italia, erodendo il benessere generale. La stagnazione dei salari reali e l’aumento del costo della vita stanno creando un circolo vizioso di ansia e insoddisfazione che va ben oltre il conto in banca. Allo stesso tempo, il basso livello di soddisfazione lavorativa degli italiani è un campanello d’allarme per le aziende. In un’economia sempre più basata sulla conoscenza e la creatività, avere dipendenti demotivati non è solo un problema umano, ma anche un serio svantaggio competitivo. C’è urgente bisogno di ripensare il rapporto tra lavoro, reddito e realizzazione personale per costruire una società più felice e produttiva» commenta Barbara Trabucchi, responsabile HR e people care di Ipsos.
L’infelicità sul lavoro è particolarmente evidente per i giovani: «Oggi le nuove generazioni vogliono realizzarsi anche in ambiti diversi dal lavoro. Per questo, se l’impiego non corrisponde alle loro aspettative o ai loro valori, lo vivono come una gabbia e diventano estremamente infelici. Così, lasciano. Del resto, – fa notare Elisa Briccola, psicologa dell’età evolutiva – si sentono più liberi di dimettersi rispetto a chi ha un’età più matura, magari una famiglia o un mutuo sulle spalle. Quindi se da un lato per loro l’infelicità è amplificata, dall’altro hanno anche meno barriere al cambiamento, con tutto ciò che questo comporta per il mercato del lavoro».
Aumenta il disagio psicologico, diminuiscono le relazioni
Tra gli altri fattori che contribuiscono all’infelicità degli italiani, vi sono: il non sentirsi amati (27%), i problemi di salute mentale (26%), la situazione sociale e politica del Paese (24%) e la mancanza di senso nella propria vita (21%). Ma ribaltando la prospettiva, sono proprio questi fattori a rendere le persone più felici. In particolare, la felicità deriva dalle relazioni familiari per il 42% degli italiani, dal sentirsi amati per il 32%, dal benessere mentale per il 26% e dalle amicizie per il 25%.
Come conferma anche lo studio Global Flourishing Study condotto dall’Università di Harvard e pubblicato su Nature Mental Health, basandosi su oltre 200.000 individui in 22 paesi, la felicità è una condizione influenzata da molteplici fattori e la dimensione relazionale è forse la più importante quando parliamo di benessere. Ma è un aspetto che soprattutto le società più ricche e industrializzate sembrano coltivare con maggiore difficoltà. Una condizione che pesa soprattutto sui più giovani: come spiega Arthur Brooks su The Atlantic, il disagio emotivo e psicologico delle nuove generazioni è più pronunciato nelle nazioni benestanti, come gli Stati Uniti, perché si è perso il valore delle relazioni e il significato più profondo della vita.
«La famiglia ha sempre avuto una dimensione protettiva: è il primo luogo di affetti profondi. Ma oggi non viviamo più in società collettivistiche, facciamo fatica a stare nelle relazioni e la difficoltà di incontrare gli altri, ci porta a chiuderci. I dati della ricerca ci dicono che in un certo senso ne siamo consapevoli e che vorremmo tornare a creare connessioni. Vorremmo ritrovare quel contatto umano che ci rendeva felici» – chiarisce Briccola.
I giovani sono i meno felici
I livelli di felicità cambiano nel tempo e la fase della vita in cui le persone si dicono più felici è quella della maturità. Tra i sessanta e i settant’anni, più del 75% delle persone si ritiene felice e appagato dalla propria vita. Le nuove generazioni, invece, non sono solo infelici ma anche poco ottimiste rispetto al futuro: la maggior parte ritiene che la propria condizione di vita difficilmente migliorerà. «L’infelicità giovanile è un tema molto complesso: siamo più informati, quindi più consapevoli. E questa consapevolezza rispetto alle guerre, le pandemie, la crisi climatica, genera ansia. La conseguenza è che molti ragazzi e ragazze si danno per sconfitti in partenza, perché sentono di non essere abbastanza» – conferma la psicologa.
OMS e Unicef hanno denunciato che i disturbi di salute mentale sono sempre più diffusi e spesso si sviluppano in età precoce. Si stima che un bambino e adolescente su sette, tra i 10 e i 19 anni soffra di ansia, depressione e disturbi comportamentali. Un terzo di questi disturbi si manifestano prima dei 14 anni, dettati dalla paura del futuro da un punto di vista lavorativo e da fenomeni globali, ma solo pochissimi vengono identificati e trattati per tempo. La maggior parte dei giovani, infatti, non accede alle cure perché i segnali di allarme non vengono riconosciuti, per via dello stigma ancora connesso al disagio mentale, per la scarsa disponibilità dei servizi o per i costi troppo alti.
Le giovani donne preoccupate per il futuro
Guardando nello specifico alla Gen Z, dal report di Ipsos si scopre una differenza di genere: i ragazzi sono più felici delle ragazze (73% contro 69%). Come noto, infatti, le donne affrontano un carico maggiore di responsabilità domestiche e di cura che influenza negativamente il loro benessere, tanto che sempre più ragazze scelgono di rimanere single.

«Non stupisce che le giovani donne sembrino essere più preoccupate dei coetanei maschi per il loro futuro. Sono molto più consapevoli delle generazioni che le hanno precedute di cosa siano il gender pay gap e la violenza di genere o di quanto la maternità possa impattare sulle loro carriere. Per questo sono frustrate, vogliono lottare ma al tempo stesso temono di non riuscire a cambiare le cose. Tutto questo genera un costo, o meglio, una perdita reale, in termini di felicità» – sottolinea Briccola.
«La disparità di genere nella felicità riflette persistenti disuguaglianze sociali. L’aumento dei problemi di salute mentale tra i giovani, unito alla mancanza di accesso alle cure e allo stigma, richiede un’attenzione urgente. È cruciale implementare politiche che vadano oltre il benessere economico, focalizzandosi sul supporto psicologico e sociale. Dobbiamo – rileva Trabucchi – creare un ambiente che promuova resilienza e ottimismo tra i giovani. Come società, è necessario ripensare il nostro approccio allo sviluppo emotivo e sociale delle nuove generazioni, investendo in salute mentale ed educazione emotiva. Solo così potremo costruire un futuro in cui anche i più giovani possano aspirare alla felicità».
Aiutare bambini e adolescenti a prendersi cura della propria felicità, raggiungendo un buon equilibrio emotivo, dunque, è forse il primo punto da cui dovremmo ripartire per crescere nazioni felici. In cui il benessere dell’individuo dipenda non solo da beni materiali – come la soddisfazione economica – ma da ciò che più caratterizza gli esseri umani: comunità, ascolto, relazioni.
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