Violenza contro le donne, più a rischio le minoranze dimenticate nelle azioni di contrasto

Il 25 novembre è una giornata molto importante. Ma i diritti per cui manifestiamo non riguardano tutte le donne. Secondo le analisi dell’alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani e un recente articolo pubblicato su Violence against women (giusto per citare un paio dei tanti approfondimenti sul tema) le donne appartenenti a minoranze etniche, religiose, le donne migranti e le donne omosessuali sono frequentemente soggette a forme specifiche di violenza di genere a causa di intersezioni tra discriminazioni multiple.

L’intersezionalità che manca alla lotta di genere

Sarebbe necessario, quindi, prendere consapevolezza che le donne non sono tutte uguali. E questo, se ci pensiamo, lo sappiamo già. Sarebbe necessario dirsi che le donne sono decisamente più a rischio di discriminazione di genere e di violenza degli uomini. Ma anche dirsi che alcune donne sono più a rischio di altre.

Si chiama intersezionalità, ed è il principio per cui più le caratteristiche di marginalizzazione si sommano, più aumenta il rischio di oppressione.

Io ad esempio sono più a rischio di una donna bianca. Ma meno a rischio di una donna disabile, oppure di una donna più nera di me.

Guardando anche solo all’Italia le analisi dell’associazione per gli studi giudici sull’immigrazione, del consiglio d’Europa, e del dipartimento di pubblica sicurezza del ministero dell’interno, donne con disabilità presentano un rischio elevato di subire violenza psicologica ed economica, spesso invisibile e trascurata dalle istituzioni. Donne migranti, rifugiate e donne appartenenti alla comunità rómàni subiscono discriminazioni sistemiche che ne amplificano la vulnerabilità, come le difficoltà di accesso ai servizi sanitari e sociali.

Perché non ci occupiamo dei diritti di donne più marginalizzate di noi?

È l’elefante nella stanza del femminismo privilegiato: i diritti delle donne sono una priorità. Ma solo se queste donne sono bianche, italiane, abili, eterosessuali.

Non è passato troppo tempo da uno dei tanti eventi in cui, al centro della stanza, ho visto saltellare imbarazzato l’elefante dei diritti di donne meno privilegiate. Tema dell’evento: violenza di genere. Ospiti: 20 speaker, quasi tutte donne. Io: partecipo in ascolto, curiosa e colpita dalla bellezza di un parterre così competente e femminile. Scorrono gli interventi davanti alle mie orecchie attente e curiose e a un certo punto lo vedo lì: l’elefante nella stanza. Non c’è neanche una donna con background migratorio. Assurdo e incomprensibile, penso. Allora mi faccio coraggio, a costo di risultare la solita pesante, e chiedo: «Come mai non sono state invitate speaker donne con background migratorio?». La risposta che ricevo: «Perché non conosciamo donne con backround migratorio competenti».

Il primo secondo mi ammutolisco in un silenzio imbarazzato. Perché una di quelle donne competenti potevo essere io, che ero proprio lì, al telefono, a sollevare il problema. Il secondo istante rabbrividisco: non è questa la stessa argomentazione che gli uomini utilizzano quando compongono panel di loro simili?

Per ogni donna ricordata, ce n’è più di una di cui ci dimentichiamo

Potrebbe sembrare una guerra tra poveri, e la guerra tra poveri spesso spara colpi così dolorosi da affossare tutti. In questo caso tutte. Non aiuta all’alleanza fare a gara a chi sta peggio, ma aiuta ancora meno ignorare il fatto che c’è chi è più povero di noi.

Così chi ha di più combatte con le uniche risorse che ci sono pensando solo a sé. E continua a lasciare senza battaglia, senza dignità e senza risorse chi ha meno e rischia di più.

Per ogni donna ammazzata che leggiamo sui giornali, ce n’è un’altra che sui giornali non ci finirà mai.

Per ogni donna violata, c’è una femminista che continua a emanciparsi pagando a nero una donna straniera, per assicurarsi una casa sempre in ordine e pulita. A volte per ogni donna liberata viene sacrificata un’altra donna, che invece rimane ancora più schiacciata.

Per ogni donna discriminata che mobilita l’empatia dell’opinione pubblica, ce ne sono tante altre di cui non interessa a nessuno. E per cui nessuno è disposto a lottare.

L’intersezionalità è una questione politica e istituzionale

La violenza di genere non è solo una questione individuale ma è strettamente legata a strutture sociali e gerarchiche di dominio. Analizzare la violenza attraverso una lente intersezionale aiuta a identificare e affrontare queste dinamiche. E senza un’analisi intersezionale, le politiche anti-discriminatorie rischiano di ignorare le esperienze specifiche di alcuni gruppi vulnerabili.

È un problema culturale, ma anche e soprattutto istituzionale. Il codice delle pari opportunità ad esempio include il concetto di discriminazioni multiple ma, sempre secondo l’associazione per gli studi giudici sull’immigrazione, l’applicazione pratica resta limitata soprattutto per fattori intersezionali non esplicitamente protetti. Lo stesso per i decreti legislativi 215/2003 e 216/2003 che, recependo direttive europee, vietano le discriminazioni multiple ma non ne forniscono una definizione chiara. E, ancora peggio, la mancanza di dati dettagliati sulle forme di violenza e discriminazione intersezionale limita l’efficacia delle politiche di prevenzione e contrasto.

L’intersezionalità della lotta riguarda i diritti di donne e uomini

È il 25 novembre 2024 e anche quest’anno abbiamo accompagnato nella stanza l’elefante. E ci siamo scordate che la lotta alla discriminazione e alla violenza di genere si può fare in un solo modo, con la coscienza pulita: in modo intersezionale.

E questo riguarda la tutela dei diritti delle donne, ma anche le logiche di accusa verso gli uomini colpevoli. Alcuni pensieri non hanno bisogno di essere spiegati con cura perché c’è sempre qualcuno che ci pensa prima di me. La scorsa settimana è stato il ministro Valditara, quando ha detto «Il patriarcato non c’è più, le violenze sessuali aumentano a causa dell’immigrazione». Ha risposto Elena Cecchettin, sorella di Giulia Cecchettin: «Giulia è stata uccisa da un ragazzo italiano, bianco e perbene». Anche quando si tratta di accusare i colpevoli, molto spesso la tutela dei diritti delle donne agisce un doppio standard razzista.

Tre pensieri per non lasciare indietro nessuna

Oggi, come esseri umani, nella data in cui ricordiamo un po’ più di ieri e di domani le sorelle che hanno sofferto e continuano a soffrire a causa di un impianto culturale che le vuole al margine, possiamo fermarci un momento. Abbracciare l’umiltà, stringere la mano al privilegio e accarezzare l’elefante nella stanza. E possiamo farlo a partire da tre pensieri.

Il primo: lo dice Irene Facheris nel suo libro Noi c’eravamo. Il senso di fare attivismo: non c’è femminismo, attivismo, lotta, di serie A o di serie B. Ognuno e ognuna lotta con gli strumenti che ha. Se come donna bianca, donna abile, donna privilegiata, non ho mai realizzato che attorno a me ci sono altre donne per cui lottare, non devo farmene una colpa. Come sempre: non è una colpa, ma da oggi può essere una nuova responsabilità.

Il secondo: lo diceva anche Michela Murgia. Se come donna sto combattendo per i diritti delle donne non devo mai dimenticarmi che attorno a me ci sono donne che di battaglie ne stanno combattendo due, tre, quattro o cinque insieme.

Il terzo: per tutte le donne dimenticate. Per tutte le donne che non hanno un nome. Per tutte le donne sfruttate, violate, abbandonate. Per tutte le donne meno privilegiate di altre donne più privilegiate. Per tutte le donne per cui non proviamo empatia. Quelle donne, che per altre donne e per altri uomini sono solo donne di serie B. Abbiamo il dovere di chiederci: se ogni vita e ogni donna conta, chi stiamo lasciando indietro in questa giornata, in questa lotta e in questa vita?

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