Sperimentare l’abisso: un romanzo per capire la fragilità del nostro tempo

Capita a volte che chiudi un libro e ti senti come se avessi detto addio a una persona che avresti voluto avere accanto per più tempo. Capita che quella persona, anzi, quel libro, abbia riempito le tue giornate e ti abbia anche fatto tirare tardi, fino a notte fonda, perché ti riusciva impossibile staccarti da quelle pagine. Capita, sì, e personalmente mi è capitato molto raramente. L’ultima volta era stato nel 2017 e il libro era “Il petalo cremisi e il bianco” di Michel Faber: novecento pagine che mi decisi ad affrontare solo perché il consiglio arrivava da una persona che stimo molto, e delle quali alla fine rimpiansi che non fossero di più.

La stessa cosa ho provato con “Una vita come tante” di Hanya Yanagihara, libro del quale anche il Times ha scritto: «Non capita spesso di leggere un romanzo di queste dimensioni e di pensare “vorrei che fosse più lungo”». Pubblicato nel 2016 da Sellerio con la traduzione di Luca Briasco, l’imponente romanzo è un viaggio nella vita di un uomo emotivamente e fisicamente danneggiato, Jude St Francis, un incontro con i demoni (“iene”, li chiama lui) che lo tormentano e con e gli amici che cercano di frapporsi tra lui e il dolore. È un libro sull’amicizia, sui suoi limiti e sull’incondizionato amore che può muoverla. Ma soprattutto un libro sull’abisso di sofferenza e vergogna in cui un essere umano può sprofondare per l’infinita eredità di abusi.

Tante e profonde sono le ferite che la vita ha inferto a Jude. Il New York Times, ha rimproverato Yanagihara di aver scritto un romanzo che «sembra quasi allegorico». Ma forse è proprio questa la potenza del libro.

Una vita come tante?

Il romanzo si apre sulla vita di Jude e dei suoi brillanti amici a New York. Hanno da poco terminato l’università, stanno iniziando la loro vita professionale, qualcuno parte col piede giusto, qualcuno sfrutta i privilegi di nascita, Jude ha dalla sua un’acuta intelligenza e un fascino di cui non sembra essere affatto consapevole. Tutti sembrano avere davanti a sé un futuro radioso e sicuro. «L’ambizione è la mia unica religione», dice Jean-Baptiste, pittore la cui arte figurativa è incentrata sui suoi amici e sulla loro quotidianità emotiva. Sguardi, riti, incontri, l’amicizia che unisce il quartetto sembra quasi utopica: una celebrazione dell’alterità e della comprensione reciproca al di sopra di ogni circostanza.

Ma via via che ci si addentra nella storia, appare chiaro che tutto ruota attorno alla figura di Jude, soprattutto attorno al suo passato, che Yanagihara svela con pazienza e una sottile seduzione solo dopo averne mostrato i tragici effetti. La sofferenza di Jude è mostrata dapprima attraverso il filtro dello sguardo dei suoi amici, e ciò la rende in qualche modo più piccola e superficiale, ma via via che le relazioni si fanno più intense e i legami più profondi, anche quando subentrano altri personaggi che portano il proprio personale bagaglio di sofferenze, il filtro si fa sempre più sottile. Fino a disfarsi completamente quando il punto di vista narrativo diviene quello di Jude e il dolore straripa da ogni riga del racconto.

È a questo punto che diventa sempre più chiaro di non avere tra le mani un romanzo di formazione, quanto piuttosto un racconto di deformazione. In quanti modi l’anima di una persona può essere ferita e violata, fino a togliere ogni speranza di redenzione? Violenza, abusi, autolesionismo, disturbi alimentari, suicidio: non è tanto per i trigger warning che bisogna fare presente che questo libro è pieno di tematiche insostenibili, è che viene il momento nella lettura in cui non si può evitare di interpellare l’autrice e chiederle: perché? Perché tanto dolore? Perché questa sofferenza sproporzionata, immorale, impietosa?

Nel dolore di Jude c’è una fragilità universale

Hanya Yanagihara

L’articolo del New York Times citato sopra accusa l’autrice di usare i meccanismi narrativi per accendere l’interesse voyeuristico del lettore, per offrire la tentazione di guardare la terribile sofferenza di qualcuno da una distanza confortevole. Certamente la prosa di Yanagihara è astuta, sa utilizzare indizi, suggestioni e flashback per suscitare la curiosità del lettore nei confronti di Jude. Ma nella sua scrittura non c’è nessun compiacimento: a un certo punto diviene chiaro che non è la credibilità dei personaggi a guidare il lettore, ma una sorta di stato febbrile in cui si muove qualcosa di intimo, introspettivo, profondamente umano.

È stato infatti anche definito un romanzo a-storico: per quanto gli anni in cui è ambientato siano abbastanza chiari, la Storia sembra essere tagliata fuori, i personaggi sono quasi dei cliché, tanto perfetti da essere irreali, sembrano più la materializzazione di un infantile “cosa voglio fare da grande” piuttosto che persone reali che costruiscono e progettano. Lo stesso Jude viene descritto così da uno degli amici: «Non lo vediamo mai con nessuno, non sappiamo di che razza sia, non sappiamo niente di lui. Post-sessuale, post-razziale, post-identità, post-passato. Il post-umano. Jude Il Post-Uomo». A lettura conclusa tornano in mente queste parole e il personaggio di Jude sembra essere il manifesto letterario del post-umanesimo del ventunesimo secolo.

Ecco allora perché leggere un romanzo come questo e incontrare un personaggio come Jude: in un tempo in cui i fatti di cronaca ci portano a chiederci se non siamo sempre più lontani dalle nostre emozioni, se l’incapacità di gestire i fallimenti e le frustrazioni non ci abbia portato ad anestetizzarci e a perdere contatto col nostro io più profondo, forse la sofferenza agghiacciante e implacabile di Jude può restituirci qualcosa che abbiamo perso.

Lo scrittore Mattia Insolia afferma: «Forse la bellezza di questo romanzo, la sua capacità di attrarre e incantare, risiede in questo: nel fare da specchio a chi lo legge – sempre senza tempi e giudizi, e con amore. Raccontando una storia così dura, dolorosa, Yanagihara ci convince a deporre le armi, ad abbassare la guardia – Jude è nudo davanti a te, dice, ti concede di vederlo nei suoi punti più osceni, e di cui si vergogna, quindi tu sta’ tranquillo e non nasconderti e porta a galla i tuoi, di punti osceni».

Possiamo leggere questa storia per liberarci in fondo delle nostre armature, dei filtri di Instagram, delle spunte blu, dei meme dietro cui nascondiamo il disagio, facendo sì che i dolori che abbiamo dentro salgano in superficie. Ed è a questo punto che Jude ci fa da specchio: nel suo dolore indicibile, sconosciuto a chi più lo ama, ma visibile completamente per il lettore, ci restituisce il nostro stesso bisogno di essere visti, compresi, accolti. Di essere interi, nel bene e nel male. Di non nasconderci più per non perdere il contatto con noi stessi, con la realtà e, soprattutto, con chi ci ama.

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Titolo: “Una vita come tante”
Autrice: Hanya Yanagihara
Traduzione: Luca Briasco
Editore: Sellerio
Prezzo: 27 euro

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