Lavoro, l’azienda non è una famiglia

L’azienda non è una famiglia, si ripete spesso. Eppure, a ben guardare, a volte ne replica le logiche. Specialmente nel rapporto dipendente-organizzazione e manager-collaboratore, dove sembrano ripetersi le dinamiche che si riscontrano tra genitori e figli.
Questi due sistemi evolvono nei modelli di riferimento, negli stili e nel sistema di valori. In entrambi i casi, in particolare, si è passati da un modello normativo a un modello affettivo.
In famiglia, questo ha significato il passaggio da “i no che aiutano a crescere” e “prima il dovere, poi il piacere” a “dimmi tu cosa vuoi fare”, “ci penso io”.
L’autorità genitoriale ha lasciato spazio all’anticipazione dei bisogni e alla protezione da tutto ciò che può ferire. Una trasformazione profonda che inevitabilmente si riflette sul lavoro. Non tanto perché l’azienda è una famiglia, quanto, piuttosto, perché i bambini e le bambine cresciuti nel modello affettivo, sono oggi la GenZ che le organizzazioni tentano in tutti i modi di attrarre, ingaggiare, trattenere.

Come sta cambiando il rapporto dipendente-organizzazione

Nel 2018 le persone cercavano un buon pacchetto retributivo e sicurezza lavorativa. Solo al terzo posto arrivava l’equilibrio vita-lavoro. Oggi, quest’ultimo è al primo posto della classifica. Mentre retribuzione e stabilità professionale sono, rispettivamente, al terzo e al quarto. Nel caso della GenZ, addirittura al quarto e al quinto, dopo equità e clima lavorativo sereno.
La prospettiva si è in qualche modo ribaltata. Sono cambiati bisogni e priorità, che riflettono la volontà di mettersi al primo posto. La cultura del sacrificio ha lasciato il posto alla volontà di stare bene e trovare il proprio equilibrio, facendo il giusto. Fenomeni come le Great Resignation e il Quiet Quitting ce l’hanno dimostrato.

La GenZ ha aspettative molto alte – spesso grandiose – nei confronti del lavoro. Desidera che esso sia un luogo di realizzazione, senso, crescita e benessere.
In un certo qual modo, è come se ricalcasse gli schemi esperiti in famiglia: cerca un luogo di lavoro che protegga e che segua l’adagio “dimmi tu cosa vuoi”. Con la conseguenza che le aziende – mosse dalla necessità di attrarre giovani talenti – stanno adottando questa impostazione. “Ascoltare” è diventato un mantra, nel tentativo di rincorrere un obiettivo impossibile: anticipare i bisogni lavorativi di un’intera generazione. Sempre meno abituata a gestire frustrazione, delusione e malessere.

In questo modo, le aziende finiscono per replicare il modello genitoriale attuale, colludendo – in un certo qual modo – con le stesse logiche, che rischiano di ingabbiare i figli/dipendenti in questi meccanismi. Un’impostazione che andrebbe bilanciata, esattamente come in famiglia è necessario trovare un punto di incontro tra il modello normativo e quello affettivo. Oppure, addirittura, una terza e nuova via.

Come sta cambiando il rapporto manager-collaboratore

Le dinamiche sopra analizzate si specchiano nel rapporto manager-collaboratore, che a tratti sembra ricalcare in toto il rapporto genitore-figlio.
Complice la trasformazione del lavoro degli ultimi anni, si sta chiedendo a leader e responsabili sempre di più. In particolare, ci si aspetta da loro competenze che non era necessario possedere fino a qualche anno fa: attenta gestione delle emozioni, capacità di ascolto, mitigazione dello stress e così via.
Oggi, i manager sono chiamati a prendersi cura di dimensioni (anche) squisitamente psicologiche. Un elemento essenziale e funzionale ai risultati, ma che tuttavia mette in crisi anche i più risoluti. E non deve sorprendere.

Ci troviamo di fronte a una crisi di ruolo. Esattamente come sta avvenendo in famiglia con quella che Recalcati definisce la crisi (o l’evaporazione) del padre. Non è un caso, dal momento che i ruoli di responsabilità in azienda seguono da sempre modelli maschili.
L’attenzione che viene invece oggi posta sulla cura, l’ascolto e la gestione delle emozioni, richiama il femminile. Un femminile che sempre di più sta entrando in azienda e che pone di fronte alla necessità di riscrivere – in primis – i modelli di leadership.

In questa necessaria trasformazione c’è tuttavia un rischio: l’”extra caring”, ovvero il passare da uno stile di gestione delle persone orientato esclusivamente ai risultati, a uno stile iper protettivo e orientato esclusivamente al benessere e alla cura.
Anche in questo caso, esattamente come nell’esercizio della genitorialità, è essenziale una via di mezzo. Il pericolo, altrimenti, è quello di trattare i lavoratori e le lavoratrici – specialmente GenZ – come degli eterni bambini. Le aziende hanno bisogno di relazioni adulto-adulto, non di interazioni genitore-bambino.

Stiamo riscrivendo il rapporto con il lavoro e le dinamiche interpersonali all’interno delle organizzazioni e come in ogni processo di cambiamento che si rispetti, avanziamo per tentativi ed errori. Ciononostante, è necessario accompagnare questa transizione con azioni mirate. Il rischio, altrimenti, è ritrovarsi di fronte a luoghi di lavoro in cui vengono progressivamente implementate sempre nuove soluzioni per il benessere e l’attenzione alle persone, che tuttavia finiscono per non preparare adeguatamente queste ultime a un mondo “là fuori” che è sempre più feroce.

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