Il linguaggio non è neutro e nel lungo viaggio verso la parità di genere gioca un ruolo fondamentale. Agli enormi passi avanti che si sono fatti negli ultimi anni, però, fanno da contraltare episodi come quello di fine luglio, quando un senatore della Lega ha presentato una proposta di legge per vietare negli atti pubblici il genere femminile: niente più “sindaca” o “avvocata”, per intenderci. Il polverone estivo, durato poche ore e che ha visto anche l’ironica presa di posizione del presidente della Repubblica Sergio Mattarella (“Spero si possa continuare a dire sindaca”) è bastata per far ritirare la proposta e farla rinnegare allo stesso partito del proponente, che l’ha bollata come “iniziativa personale” del senatore.
Una comunicazione più inclusiva
Episodi come questo non sono rari e indicano quanto la resistenza al cambiamento sia radicata. Tuttavia, ben più incisivi e significativi sono i passi avanti concreti, come il recente inserimento nelle norme previste dalla certificazione per la parità di genere (UNI/PdR 125:2022) delle indicazioni per una comunicazione inclusiva. UNI, vale la pena ricordarlo, è l’ente di normazione che da oltre un secolo redige e pubblica le norme tecniche volontarie, in materia perciò di standard e di qualità, per prodotti, servizi e organizzazioni e, tra queste, la UNI/PdR 125:2022 che è la prassi di riferimento del sistema di gestione per la parità di genere.
Il peso delle parole
A chiarire i motivi che hanno condotto alla elaborazione delle Linee Guida sulla comunicazione inclusiva, che contiene suggerimenti chiari su tecniche redazionali ed esempi pratici, c’è Gianna Zappi. La vice direttrice generale di sostenibilità e valorizzazione di UNI nella brochure parla di cambiamento, da innescare dentro e fuori dalle organizzazioni: “Le parole non sono neutrali. Le parole sono potenti. Le parole danno forma alla realtà, a come è ora e soprattutto a come potrebbe divenire. Rappresentano pensieri e generano comportamenti. Richiedono un uso consapevole e responsabile. Le parole contribuiscono a garantire inclusione, equità, pienezza di ruolo per ogni persona, indipendentemente dal suo genere”. L’intento è dunque quello di addivenire a un linguaggio che non escluda e che anzi metta al centro la persona, senza discriminazioni, per contribuire così a disinnescare dinamiche, a spezzare pregiudizi e decostruire stereotipi.
Cos’è un linguaggio neutro?
UNI, in una ventina di pagine, richiama le linee guida del Parlamento Europeo sul linguaggio neutrale: “Un linguaggio “neutro sotto il profilo del genere” indica, in termini generali, l’uso di un linguaggio non sessista, inclusivo e rispettoso del genere. La finalità di un linguaggio neutro dal punto di vista del genere – si legge – è quella di evitare formulazioni che possano essere interpretate come di parte, discriminatorie o degradanti, perché basate sul presupposto implicito che maschi e femmine siano destinati a ruoli sociali diversi. L’uso di un linguaggio equo e inclusivo in termini di genere, inoltre, aiuta a combattere gli stereotipi di genere, promuove il cambiamento sociale e contribuisce al raggiungimento dell’uguaglianza tra donne e uomini”.
Per il 79% degli uomini a lavoro prevale il linguaggio non inclusivo
Il progetto parte da lontano, dall’UNECE (Gender responsive standards declaration) sottoscritto nel 2019 e dall’adesione a Fondazione Libellula, aziende in rete per la prevenzione e il contrasto della violenza sulle donne e della discriminazione di genere. A proposito del network, la fondazione ha reso noti gli esiti di un ricerca – “Il maschile e l’equità di genere: pensieri ed esperienze Survey L.U.I. Lavoro, Uomini, Inclusione” – secondo cui il 79% degli uomini ritiene che nel proprio contesto il linguaggio e le espressioni utilizzate non siano sempre rispettosi verso le donne. La percezione ricavata da quei questionari anonimi, somministrati nel febbraio 2023, la dice lunga dello stato dell’arte, soprattutto se si considera che quella consapevolezza cala nelle fasce di lavoratori sotto i 30 anni.
Il cammino della parità in azienda
L’obiettivo della parità di genere sappiamo essere ormai obiettivo istituzionale, assunto a livello nazionale e internazionale, sotto l’egida di Agenda Onu 2030 fino alle linee guida europee. Il cammino della certificazione delle aziende in Italia ha compiuto ormai un anno e procede, ma il percorso per la parità è ancora lungo. Esso impone azioni e interventi a dir poco radicali, reclama una rivoluzione culturale capace di superare gli stereotipi e scardinare le fonti di disuguaglianza. Ecco che ciò richiede alle realtà aziendali nuovi paradigmi nell’organizzazione del lavoro che vadano riletti e riscritti, a partire dall’inclusione a tutti i livelli delle donne. Per realizzare il cambiamento, le organizzazioni stanno progressivamente dotandosi di strumenti, attraverso i quali porre obiettivi per ogni fase lavorativa; misurare in modo chiaro e standardizzato i progressi; certificare i risultati raggiunti, secondo processi qualificati e trasparenti.
Si tratta insomma di impegnarsi a recepire i principi di gender equality, articolati sull’intero percorso lavorativo: dal recruiting al pensionamento. Aumentare la presenza femminile è necessario, ma non è sufficiente; serve anche garantire pari opportunità di carriera, e specialmente fino ai ruoli apicali; bisogna assicurare pari retribuzione, pari condizioni di work-life balance che tengano conto, in maniera proattiva, di un processo di riequilibrio dei carichi di cura tra uomini e donne.
Se il contesto è quello appena descritto, il tema dell’uso non sessista del linguaggio non può che confermarsi allora centralissimo e di grande (estrema) urgenza, specie alla luce delle involuzioni della attuale politica di governo e dell’attuale legislatura. Pregevole è perciò il lavoro fatto da UNI, con una brochure che eccelle in chiarezza. Sulla corretta declinazione delle figure istituzionali: il direttore generale/la direttrice generale; l’assessore/l’assessora; il presidente/la presidente; il segretario/la segretaria; il responsabile/la responsabile; il dirigente/la dirigente; il ministro/la ministra; il magistrato/la magistrata; il prefetto/la prefetta; il cancelliere/la cancelliera; il sindaco/la sindaca; il deputato/la deputata; il parlamentare/la parlamentare; il delegato/la delegata
Nessun dubbio insomma che le donne vadano, finalmente, nominate.
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