Violenza sulle donne, perché è importante distinguerla dal conflitto

Le parole mi hanno sempre affascinato, sono alla base del mio lavoro: parole che curano, parole che trasformano, che svelano, che definiscono… Le parole non sono semplicemente un insieme di lettere, l’unità minima di un discorso, ma sono molto di più; così piccole, eppure così potenti: le parole possono trasformarsi e modificarsi a seconda del contesto in cui le usiamo, sono in grado di suscitare emozioni e determinare un nostro atteggiamento. Creano cultura e nel contempo ne sono l’espressione, quindi l’uso consapevole ed appropriato delle parole è fondamentale perchè condizionano il nostro modo di pensare, di sentire, di essere.

Da qui il motivo per cui, ogni qual volta mi trovo a condurre delle lezioni in qualche corso di formazione sul tema della violenza contro le donne, cerco sempre di lasciare uno spazio alla riflessione sulla necessità di fare attenzione al significato delle parole e soprattutto mi soffermo sull’ improprio uso delle parole “conflitto e violenza” come sinonimi.

I rischi di confusione e il ruolo della famiglia

Troppo spesso, infatti, non solo nel linguaggio comune, ma anche da parte dei “tecnici” , dei giornalisti, dei politici questi due termini vengono usati come interscambiabili, eppure, soprattutto nel contesto delle relazioni interpersonali, specialmente di coppia, questo utilizzo indifferenziato delle parole conflitto e violenza non dovrebbe sussistere perché, così facendo, si crea confusione, si offuscano i fatti, si sminuisce l’intensità e la gravità dell’evento “violento”, non si colgono le inevitabili e differenti conseguenze ed implicazioni.

Una cultura famiglia-centrica, da un lato, ha sempre difeso l’istituzione familiare esaltandone l’immagine di luogo elettivo d’amore e protezione, dall’altro ha tollerato, nascosto e talvolta legittimato la violenza che si consuma all’interno delle mura domestiche; anche l’uso prolungato, improprio e intenzionale delle parole “conflitto, litigio, scaramuccia” al posto di “violenza o maltrattamento”, può essere letto, in questa ottica, come tentativo di mistificare o ridimensionare i fatti al fine di proteggere l’istituzione famiglia.

Comprendere per intervenire correttamente

Ma cosa è conflitto? E cosa è violenza, soprattutto all’interno delle relazioni intime? Per fare chiarezza occorre definire; solo da lì si può poi giungere ad una “diagnosi differenziale” e quindi ad un inevitabile differente intervento nelle due situazioni. Il termine conflitto deriva dal verbo latino fligo, fligere (urtare, percuotere) che ha una valenza negativa, ed il suffisso cum che indica una dimensione «gruppale» di compartecipazione, con un’accezione positiva: uno «stare insieme» connotato in modo negativo.

Il conflitto, nella cultura occidentale è stato ampiamente studiato e interpretato in vari contesti, inclusi quelli politici, sociali e psicologici; nella società contemporanea spesso il conflitto rimanda, in modo immediato, a un qualcosa di disturbante e pericoloso in contrapposizione al mito dell’unità armonica da perseguire. Questo approccio non fa che rafforzare la sensazione che il conflitto sia qualcosa di terribile, anticamera della violenza e origine di tutti i mali, qualcosa da prevenire ed evitare. Così facendo, però non si rende ragione alla complessità ed alla ricchezza dell’esperienza conflittuale

Il conflitto fa parte della natura umana

Eraclito sosteneva che “Pólemos è padre di tutte le cose, di tutte re.” Il conflitto costituisce una parte essenziale ed integrante della natura umana, è un aspetto inevitabile della nostra quotidianità, delle relazioni interpersonali, ma non rappresenta necessariamente un elemento negativo, una forza distruttiva portatrice di caos e distruzione (Winstok e Eisikovits, 2008). Il conflitto infatti non è di per sé patologico o malsano, anzi può costituire un’occasione di crescita personale e relazionale, una condizione in cui vi è possibilità di dialettica, reciprocità, corresponsabilità e una sostanziale parità tra gli attori.

Il conflitto permette di stimolare il pensiero critico, chiarire le proprie convinzioni e opinioni; aiuta a comprendere meglio la propria posizione all’interno delle relazioni accrescendone il valore e l’autenticità e, addirittura, può rafforzare il senso di unità e solidarietà all’interno della famiglia.

Quando il conflitto diventa distruttivo

La violenza, invece può e deve essere considerata come “l’uso intenzionale della forza fisica o del potere, o la minaccia di tale uso, rivolto contro se stessi, contro un’altra persona … che produca o sia molto probabile che possa produrre lesioni fisiche, morte, danni psicologici, danni allo sviluppo, privazioni” [Oms, 2002] quando tutto questo viene messo in atto in maniera reiterata ed intenzionale nei confronti della propria partner per poterla controllare e sottomettere, si parla di violenza domestica, o Intimate Partner Violence. Eppure anche il conflitto può arrivare a raggiungere una tale intensità emotiva e dei comportamenti di una tale gravità che facilmente potrebbe essere scambiato per maltrattamento.

Ricordate “La guerra dei Roses”? Un film straordinario che narra la storia di Oliver e Barbara che si incontrano, si innamorano, e poi ad un certo punto, l’idillio termina. In un crescendo di dispetti, cattiverie e tradimenti si assiste alla trasformazione di una relazione d’amore in una relazione d’odio reciproco in cui atti di violenza sono presenti e vanno in un crescendo fino all’insolito finale: i due protagonisti muoiono arroccati rigidamente nelle loro rispettive posizioni antagoniste.

La negazione dell’altro

In una simile situazione ci troviamo dinanzi al conflitto distruttivo caratterizzato da sentimenti di frustrazione e di antagonismo in cui entrambe le parti cercano di vincere a qualsiasi costo, rifiutano di comunicare onestamente e apertamente e rifiutano le soluzioni dell’altra parte. In un conflitto distruttivo, le richieste di entrambe le parti non si ottengono . Tali conflitti di solito non rafforzano il rapporto, ma lo deteriorano; la presenza di un processo escalativo, la persistenza e resistenza rendono questi conflitti intrattabili, impossibili da risolvere. Soprattutto in questi casi è ancor più necessario riuscire a fare una “diagnosi differenziale” tra conflitto e violenza domestica; come sostiene Hirigoyen «… quello che permette di distinguere la violenza coniugale da un semplice litigio non sono le botte o le parole offensive, bensì l’asimmetria nella relazione.

In un conflitto di coppia l’identità di ciascuno è preservata, l’altro viene rispettato in quanto persona mentre questo non avviene quando lo scopo è dominare o annichilire l’altro»; una cattiva relazione, oltre che da comportamenti violenti e della loro escalation, deve essere caratterizzata dalla presenza di Paura/terrore in uno dei soggetti (vittima) e vissuti di onnipotenza nell’altro (il carnefice oltre all’intenzionalità di danneggiare l’altro per creare un danno irreversibile. Infine, nella relazione maltrattante, si assiste a una recidiva cronica e ciclica dei comportamenti disfunzionali; inoltre lo scontro ha, come focus, un tema specifico (valori, idee, etc.), ma si gioca sulla negazione dell’alterità e soggettività dell’altra e il suo esito è sempre prevedibile (una parte prevale sull’altra).

Perché è importante dare un nome

Quindi, pur senza negare i danni che possono derivare dalle situazioni conflittuali è essenziale distinguerle dalle situazioni di violenza perché “non nominare e descrivere il maltrattamento collude con la minimizzazione sociale del fenomeno e con la sottovalutazione dell’impatto che atti e comportamenti violenti hanno non solo su chi ne subisce direttamente le conseguenze, ma anche su coloro che ne sono testimoni, e ha effetti negativi ai fini della protezione fisica e mentale e del trattamento” (Cismai, 2000, 2005).

L’utilizzo improprio del termine “conflitto o lite” per connotare situazioni di violenza, scherma la realtà dei fatti impedendo l’accesso alla comprensione del fenomeno e al livello descrittivo di quanto “realmente” sta accadendo. La più grave conseguenza di ciò è la mancata attivazione di un intervento appropriato alla situazioni con il rischio di anche esiti fatali sulle vittime: i bambini e le loro madri possono venire uccisi. Nominare “la violenza” significa, però, non solo riconoscerne l’esistenza, ma anche trasformare un “affare privato”, che tocca la famiglia, in un problema sociale.

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