Questo articolo è parte di una campagna a cui hanno aderito oltre 100 scrittrici e giornaliste italiane per denunciare la violenza di genere e nominarla. #unite #rompiamoilsilenzio
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Le piante stanno morendo. Sono settimane che osservo le loro foglie raggrinzirsi, ingiallire, poi cadere sulla terra arida dei vasi, sul pavimento che non pulisco. Questa è la vita, penso, con lo sguardo rivolto alla morte. Non è semplice incuria, la mia; forse, in fondo, si tratta di amare troppo per non amare niente: lo so che soffrono, lo sento che muoiono. Ho un potere assoluto: quello di salvarle all’ultimo momento; di annegarle e farle marcire; o di guardarle soffocare dopo che hanno lottato, nei loro giorni immobili, per reperire nella stanza un residuo di umidità. Lo sento il mio potere e lo manifesto. Il mio occhio si ferma su una Potos, una sempreverde – dicono – la pianta degli smemorati – la chiamano, perché è vigorosa, tollerante, idonea a resistere alla negligenza, capace di sopportare una perdurante disaffezione. Eppure, non trovando fusti sui quali aggrapparsi, nonostante la sua tangibile tenacia, anche lei dovrà spirare. Già so che l’amerò di più dopo che sarà morta.
Ripenso a quando ero bambina, cinque anni o giù di lì, mi appoggiavo sul muro, in un punto del lungo corridoio, e giocavo a fare la pianta.
“Mamma, papà, guardatemi, io sono una pianta”.
Qualcuno, prima o poi, mi avrebbe dovuto annaffiare secondo i miei piani, così me ne stavo ferma, impassibile, con le braccia tese in alto e le mani giunte sopra la testa, come una statuina in preghiera.
“Sei un tulipano?”, scherzava mia madre, passando di fretta da una stanza all’altra. Chiaramente non rispondevo, le piante non parlano. Tuttavia, che io non fossi un tulipano, mi sembrava abbastanza evidente; semmai, un alberello spoglio, di quelli che si spera fioriscano, prima o poi, proprio come ha promesso il vivaista, e invece trascorrono una vita sguarnita, nell’angolo ombroso di una casa inospitale, alla ricerca disperata di un raggio di sole che non arriverà.
Ogni tanto, mia sorella reclamava la mia presenza. “Perché, perché non vieni a giocare con me?” mi domandava con un tono di lamento, strattonandomi il maglione o brandendomi delle barbie nude sotto al naso. La osservavo con la calma con cui può osservare una pianta, né più né meno, le sopracciglia aggrottate, gli occhi stretti, ma comprensivi, le labbra ferme, che mai si discioglievano in un sorriso.
“Non lo vedi? È una pianta”, le diceva mia madre come a volermi giustificare, per non farle soffrire il rifiuto le spiegava: “lei ora non può giocare con te, ha foglie, mica ha mani”. Quando parlava così, soltanto in quei momenti, mia madre mi capiva.
Le avevo detto, una volta, “lo sai cosa mi ha fatto il nonno?”
Per poterlo confessare, avevo dovuto convogliare tutto il coraggio, avevo provato e riprovato la frase più volte, guardandomi allo specchio, controllando che il suono e il labiale coincidessero alla perfezione, che le mie affermazioni fossero chiare ma delicate. Avevo bisogno di raccontare quello che era successo, avevo la necessità di dirlo con il sostegno delle poche parole che conoscevo.
Lei aveva risposto che il nonno è un santo. Un santo, avevo ripetuto tra me e me, un santo risuonava dentro e fuori la mia bocca, sulla superficie rotta e confusa della mia fede.
“Il nonno ti sveglia, ti fa dormire, ti accompagna a scuola, ti prepara la merenda, ti porta ai giardinetti, ti fa fare i compiti, se non ci fosse lui, io… Se tuo nonno non ci fosse, io non lo so cosa farei. Quell’uomo è un santo, è un santo che mi hanno mandato dal cielo.”
Allora, guardavo il cielo e lo ringraziavo: “grazie, cielo, che hai mandato un santo qui per la mia mamma. Grazie, caro cielo, perché la fai felice.”
La mamma le piante le innaffiava sempre. A volte, nonostante indossasse già il tailleur, anche con la gonna stretta a sigaretta che le permetteva di fare pochi passi tutti ravvicinati, persino sotto l’ingiunzione dei suoi tacchi alti e sottili che non sembravano mai poterla sostenere per davvero, se, dentro un vaso la terra si era inaridita, lei lo percepiva, interrompeva ogni cosa stesse facendo, anche la più imminente, e l’abbeverava.
“Le piante mi parlano”, mi ha detto una volta. “Se tendi l’orecchio, puoi sentirle anche tu. Ci vuole sensibilità e un po’ di allenamento. Hanno voci diverse dalle nostre, ma sanno comunicare, ti chiamano, ti domandano, ti ringraziano”. E quindi avevo teso l’orecchio per provare a indovinare, nell’ingombro silenzio, la materia con cui fosse fabbricata quell’unica voce che mia madre non sapeva non ascoltare. Cercavo un sibilo, un gemito, a volte un canto da poter imitare, eppure intorno a me le mura erano così taciturne da coprire ogni altro suono.
Niente, non c’è verso – pensavo – non le sentirò, non troverò mai lo stratagemma per farmi ascoltare.
Le orecchie mia madre le aveva, ma non le usava. Era stata dotata di occhi eloquenti, di una voce squillante, conosceva l’arte del prescrivere e del giudicare, del codificare e del rimproverare, ma se le domandavi di udire, in lei si attivava una forma potente di autodifesa capace di trasfigurare del tutto le parole. Così, per esempio, accadde la volta in cui la maestra Margherita la convocò a scuola per dirle di stare attenta, in campana, che sua figlia – cioè io – appariva eccessivamente sessualizzata rispetto alla sua tenera età, che diceva, faceva e disegnava cose non consone per una bambina. “Signora” le disse “gli occhi, in famiglia, non sono mai abbastanza. Li tenga ben aperti”.
Mia madre si arrabbiò, si rabbuiò, mi disse che non avrei più dovuto dire, fare e disegnare certe cose, che poi a scuola ne avrebbero dette di cotte e di crude, che noi eravamo una famiglia onorevole e che, di certo, non meritavamo dicessero queste cose di noi.
Annuivo, un po’ tremavo. Mi chiedevo perché la confessione che avevo preparato e pronunciato, sino a conoscerla a menadito, sino ad averne la nausea, non riusciva a risalire la mia ugola. Perché, ogni volta che tentavo, negli occhi di mia madre leggevo un tacito divieto di parlarle? E perché nel mio cuore imperava l’ombra insopportabile della colpa?
La voce di mia madre risuonava con la veemenza del dogma. Il nonno è un santo!, sentivo – dentro di me e fuori da me – mentre ripensavo alle mani che annaspavano – dentro di me e fuori da me – nel lettino dove avrei dovuto dormire perché il giorno dopo sarei andata a scuola.
Il nonno ti ama, ti ama da morire, sei l’unica che ama così tanto, rintoccava la sua voce come una verità rivelata, come la campana della parrocchia, mentre ricordavo del modo in cui lui mi aveva stretto braccia e gambe, dicendomi “questo è solo un gioco, il nostro gioco”.
È così solo, poverino, ha soltanto te, vive per te, echeggiava il gemito assillante di mia madre incidendo nel mio cervello il precetto che mi avrebbe rovinata: io quell’uomo lo avrei amato e salvato, io quel poverino lo avrei soddisfatto e protetto, io quel mio piccolo, inutile corpo lo avrei sacrificato volentieri per colui che, al contempo, mi aveva in custodia e mi molestava, e per chiunque altro, in futuro, mi avrebbe promesso, insieme, violenza e amore.
“Non è un po’ strano che nostra figlia, anziché correre e urlare e giocare e buttare tutto all’aria insieme agli altri bambini, se ne stia lì, in un angolo buio, immobile, a emulare una pianta?”, sentii chiedere mio padre a mia madre, una delle poche volte in cui lo vidi in casa. Rabbrividii, perché per un attimo provai l’intollerabile sensazione di esistere. Mi ricredetti subito. “Da piccolo non ci giocavi tu alla bella statuina? Alla mosca cieca?”, rispose lei distratta, mentre santificava ogni cosa per non dover demonizzare nulla.
Intanto, nessuno giocava con me, nessuno si preoccupava di controllare quanto fosse umida la mia terra o di annaffiare il mio vaso. Sarei potuta perire da bambina, se non fossi stata già morta. Non tecnicamente morta, ma comunque stecchita, soppressa, trapassata lo ero. Si muore, in effetti, quando un evento permanente e irreversibile impone al soggetto di perdere il corpo e così mi è accaduto quando il primo uomo mi ha insegnato che la mia carne non mi apparteneva, né mi sarebbe mai appartenuta. La prima volta in cui ho avuto in dotazione un corpo è la stessa in cui l’ho perso. Il primo uomo che ho amato, il mio corpo lo ha preso. Nella prima occasione in cui ho incontrato il sesso, dentro di me non esisteva ancora nessuna parola per nominarlo, figurarsi per dominarlo. Mio nonno mi portava in giro, mi cambiava, mi vestiva, mi nutriva, mi sorrideva, mi proteggeva, mi toccava e quando ho imparato a pronunciare la parola “No”, ha continuato a toccarmi lo stesso. È per questo – per punizione e per difesa – che sono cresciuta separata dal corpo: entrambi nella stessa stanza, fasciati dalla stessa stoffa, eppure disuniti, irrimediabilmente scissi.
Giocare, correre, ballare, nuotare, lanciare una palla, sono le cose dei bambini che non ho mai fatto, per evitare di avere una testimonianza, un incontrovertibile riscontro della mia esistenza corporea. Fare la pianta, invece, è stata la mia più salda illusione e la mia cura, fin quando la mia fervida immaginazione mi ha consentito di pensarmi libera e immateriale, fin quando il mio corpo di donna non mi ha imposto di assumere, nel mondo, l’unica posizione che mi è concessa in quanto femmina: subalterna, guardinga, caduca.
Non so quanti giorni siano passati dall’ultima volta che ho innaffiato le mie piante. È l’unico gioco che, da sempre, mi concedo: le acquisto, le interro con amore, poi sospendo ogni cura e le osservo appassire. Quindi le ricompro e ricomincio a giocare. Le foglie, ora, sono avvizzite, distese come cadaverini sul pavimento, altre hanno già iniziato il loro processo di decomposizione, sono macilente, ne intravedo lo scheletro in trasparenza, lo trafigge un fascio di luce: mi appare persino bello.
Resto immobile, come quando ero piccina, contemplando il mio personalissimo inverno, quello che si consuma nella mia casa. Non mangio, non bevo, e spero che il mio corpo svanisca, a un certo punto, per analogia con i vegetali. Mentre mi sollazzo all’idea di sparire, evaporare, lacerare ogni residua idea di futuro, sbrindellare ogni speranza d’amore, ritrovo un ultimo ricordo. Lo afferro e non lo lascio più andare.
C’è mia mamma, ha la febbre, è malata e, per questo, non ha nessuna fretta. Mi guarda, mi prende il viso tra le mani e mi sussurra “tu sei mia figlia, tu sei ancora la mia bambina”. Non so perché dica ancora, ignoro in che momento abbia avuto il timore di avermi persa, l’unica cosa che mi importa è che lei ora, pallida e dolce, mi dica “tu sei la mia bambina”. Vorrei risponderle “sì mamma, sono io, sono tua figlia, proteggimi, ti amo così tanto”, ma le mie labbra, come sempre è stato, non trovano voce.
Nel mio ricordo mia madre mi guarda dentro gli occhi, sorride e poi mi dice: “Sono troppo debole, ma domani ti annaffio per davvero”. É la promessa che mi stringo al cuore, quella che non manterrà. Continua e mi chiede “che pianta sei oggi? Una crassula? Un ficus? Una kentia? Uno spatafillo?”
Vorrei gridare “mamma, io sono soltanto una bambina!”, ma la mia gola è avvizzita e riarsa come le mie foglie. È il momento in cui non vorrei più giocare, eppure non conosco nessun altro linguaggio. Vorrei esplodere d’amore per lei e, finalmente, parlarle. Eppure, sono muta, arida e secca come la pianta degli smemorati. Vorrei, ma non posso raccontarle, vorrei, ma non posso implorarla, non posso nemmeno farle una carezza e dirle “Nonostante i tuoi santi, mamma, io ti perdono”.
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