Nogaye Ndiaye, come fare resistenza attiva contro le discriminazioni

Se c’è una cosa che mi ha colpito di Nogaye Ndiaye è la delicata lucidità con cui condivide saperi, conoscenza, pensieri e emozioni. L’ho conosciuta molto prima del nostro primo incontro: attraverso la sua pagina Instagram @leregoledeldirittoperfetto. Dottoressa in giurisprudenza e scrittrice, Nogaye fa divulgazione sui social e non solo su transfemminismo e antirazzismo.

Nata e cresciuta a Milano, ha messo piede in Senegal, il suo Paese di origine, solo pochi anni fa. “Molto tardi”, come dice lei. Ma non troppo per connettersi con un pezzo centrale della sua identità. E chi meglio di me può capirla. Io, metà ivoriana ma che in Costa d’Avorio non sono ancora mai stata.

Quello di Nogaye è stato e continua a essere un viaggio di scoperta interiore. Ma lo fa più per gli altri che per sè. Attraverso un processo di decostruzione personale, di divulgazione sui diritti umani (da qui il nome della sua pagina Instagram) e soprattutto di condivisione, ci avvicina alle dinamiche del razzismo interiorizzato e al vissuto di donne afrodiscendenti in Italia.

Cosa significa per te fare divulgazione?

Per me la divulgazione si lega al bisogno di consapevolezza e di resistenza attiva. Quando mi chiedono cosa mi spinge a espormi, rispondo sempre che è il dolore, il trauma. Cose che non posso più ignorare dopo aver fatto un percorso di decostruzione personale. È come se mi fossi risvegliata in una realtà nuova, più chiara, più cruda. Fare divulgazione per me è la risposta a questo sistema che spesso ci vuole zitte e immobili di fronte alle ingiustizie.

Per me, è un modo di resistere attivamente, di non accettare passivamente le dinamiche di oppressione e discriminazione. È come se ogni giorno mi alzassi con l’imperativo morale di non restare in silenzio di fronte alle ingiustizie. E questo perché, dopo essermi resa conto di come funzionano le discriminazioni e di come impattano sulla mia vita e sulla vita degli altri, non posso più far finta che tutto vada bene.

E non si tratta solo di me. Voglio che altre persone abbiano lo stesso risveglio che ho avuto io. Non tanto perché voglio che tutti sentano questo peso, ma perché credo che solo attraverso la consapevolezza possiamo davvero cambiare le cose. È come se fossimo stati schiavi senza saperlo. E solo aprendo gli occhi possiamo finalmente lottare per la nostra libertà interiore e collettiva. Fare divulgazione per me è una sorta di missione personale, ma anche un atto di solidarietà verso gli altri.

Come è avvenuto il tuo risveglio?

È stato un processo lento. A volte mi vergogno un po’ perché è successo piuttosto tardi. Quattro anni fa, dopo aver trascorso 21 anni vivendo in una sorta di nebbia. Un giorno mentre stavo mettendo a posto la mia camera ho trovato un mio vecchio libro di poesie.

In una delle poesie, “Black or white, unfortunate black” (“Nera o bianca, sfortunatamente nera”), parlavo del mio dolore nel vivere in un mondo diviso dal colore della pelle. Mi chiedevo perché i miei amici dovessero usare il colore della mia pelle per farmi del male, cosa c’era di sbagliato in me. Avevo solo tredici anni quando ho scritto quella poesia e quando l’ho ritrovata dieci anni dopo mi si è spezzato il cuore. Mi sono resa conto che la situazione non era cambiata.

Quel giorno ho deciso di leggere quella poesia davanti a una telecamera e ho pubblicato il video online. È stato il mio primo passo per non tacere più. Il mio risveglio è stato un processo naturale di auto-indagine, per cercare risposte alle mie domande.

Poi c’è stato un momento in cui ho capito che per completare questo percorso dovevo tornare alle mie radici, andare in Senegal. Prima di allora non avevo mai avuto interesse per le mie origini per via del razzismo interiorizzato.

Cosa ti è rimasto da quel viaggio?

Ho deciso di andare in Senegal con mia madre. È stato un viaggio di auto-scoperta, dove ho capito quanto poco conoscessi delle mie radici e quanto fosse importante per me riconnettermi con la mia storia.

A volte è come se mi riaddormentassi. E quando succede vado a rileggermi le cose che scrivevo, da piccola. Poesie piene di dolore. Parlavo di rabbia, tristezza. In realtà, per un po’, ho smesso di scrivere.

Ma poi quando sono tornata dal Senegal qualcosa è cambiato. Ho iniziato a scrivere di nuovo, ma questa volta non poesie di dolore. La mia prima poesia felice è stata The black people burden: il peso della bianchezza, un inno alla gioia e alla fierezza delle mie radici. Da lì è nata un’altra poesia, Il risveglio di una mente colonizzata, che ha dato il titolo al mio libro.

Credi che il viaggio in Senegal ti abbia cambiata?

Questo risveglio ha portato consapevolezza, serenità e la voglia di riprendere tutto ciò che avevo perso. Come il parlare il senegalese, il rapporto con la mia famiglia e la mia terra. Ho anche creato un brand con la mia famiglia. La mia vita è cambiata radicalmente. Ho perso molte persone, ma ho anche lasciato andare chi non voleva fare questo percorso con me, perché è un viaggio molto personale e intimo.

Il mio augurio è che questo risveglio possa toccare tutti, ci permetterebbe di vivere una vita più consapevole e meno individualista. Da quando sono tornata dal Senegal ho capito l’importanza della comunità e dell’impatto collettivo. Il successo per me non è più individuale, ma è combattere le discriminazioni insieme ad altri e fare la differenza per la comunità.

Hai appena pubblicato il tuo primo libro “Fortunatamente nera. Il risveglio di una mente colonizzata“, in cui racconti la tua storia. Come hai scelto di raccontarti? 

All’inizio quando mi avevano proposto di scrivere un libro ero preoccupata che diventasse un’altra di quelle storie tristi, fatte solo di sofferenza dei neri. Ma io non volevo parlare solo di dolore. Anche se il dolore c’è, il modo con cui lo racconto è consapevole. Anche la copertina del mio libro è un inno alla felicità che viene dopo il dolore.

Anche se leggendo il libro si provano tanti sentimenti, alla fine prevale la felicità. Io rivivrei tutto quel dolore altre mille volte se questo contribuisse comunque a rendermi una persona orgogliosa delle proprie radici e pronta a combattere attivamente le ingiustizie del sistema. Quindi, sì, tutto quel dolore si trasforma in una forza incredibile.

Il mondo delle discriminazioni è vastissimo e affrontabile attraverso molte discipline. Ad esempio io ho deciso di affrontarlo da una prospettiva psicologica. Perchè proprio il diritto?

Nonostante fossi una persona con ADHD, sono sempre andata molto bene a scuola. Certo, avevo le mie difficoltà nello studio, ma ho sviluppato le mie tecniche. La verità è che mi è sempre piaciuto leggere e studiare.

Poi ho scelto di iscrivermi a giurisprudenza. E anche se mi fa male ammetterlo, l’ho fatto per dimostrare di essere intelligente, per essere accettata. Vedevo le persone nere rappresentate come poco intelligenti e sentivo il bisogno di dimostrare il contrario.

Attraverso lo studio del diritto romano e medievale ho compreso i problemi della nostra società e come si siano sviluppati nel tempo. Quindi ho scelto di specializzarmi nel percorso civile, focalizzato sulla difesa dei diritti umani. Ho studiato materie come filosofia dei diritti e sociologia dei diritti, per comprendere il rapporto tra diritto e società. La mia tesi in filosofia dei diritti si è concentrata sulla prospettiva femminile dei diritti umani, con un’attenzione particolare alle donne migranti. Ho unito la mia passione per la ricerca e la conoscenza alla mia lotta per i diritti umani.

Rigore accademico e attivismo possono sembrare due mondi molto distanti. Come li coniughi? 

Studiare mi ha aiutata a distaccare la mia parte da attivista dalla quella più razionale. È stato un regalo prezioso del mio professore. Adesso sono in grado di discutere in modo più obiettivo e razionale. Non lascio che la mia rabbia e la mia tristezza influenzino la mia spiegazione del diritto. Ho imparato a basarmi sui fatti e sulla logica. Ho unito la mia passione per la lettura e la mia vocazione per la ricerca alla difesa dei diritti umani e non voglio fermarmi qui. Voglio continuare a fare ricerca, a studiare e a lottare per le cause in cui credo, senza dovermi piegare a un sistema che non funziona. Sto pianificando di intraprendere un dottorato di ricerca, perché voglio approfondire le mie conoscenze e contribuire al cambiamento in modo significativo.

Ho chiesto a Nogaye di aiutarci a comprendere meglio alcuni concetti

Rappresentazione: “C’è una frase del libro Mare aperto di Caleb Azumah Nelson che mi ha colpito profondamente:”c’è una differenza tra essere guardati e essere visti”. La rappresentazione per me significa essere visti, non solo guardati. Da persona razzializzata in Italia mi rendo conto di essere spesso osservata, ma non mi sento mai realmente vista. Non vengo rappresentata quando accendo la TV, vado al cinema o apro un libro, persino quando studio la storia del mio paese di origine a scuola. Devo vedere il mio paese attraverso gli occhi dei colonizzatori, e questo è frustrante. Essere rappresentati significa potersi identificare in ogni aspetto della propria vita, fin dall’infanzia quando si guardano i cartoni e si vedono solo principesse sirene bianche. La rappresentazione è cruciale per la costruzione di una società inclusiva e equa”.

Strumentalizzazione: “La strumentalizzazione avviene quando certi argomenti vengono manipolati per riprodurre stereotipi, pregiudizi o visioni distorte su una particolare categoria di persone o su determinati temi. Se penso alla strumentalizzazione dei migranti, ad esempio, mi viene in mente quando si parla della migrazione solo in termini negativi. Ma poi, guarda caso, quando si tratta di interessi economici, come nel caso del piano Mattei, improvvisamente l’Africa diventa un luogo ricco di risorse grazie agli immigrati. È una sorta di mentalità che associa automaticamente il continente africano a un’immagine negativa”.

Pornografia del dolore: “È come quando parli di un certo argomento o di un gruppo di persone solo utilizzando immagini o storie estremamente tristi e violente, piene di sofferenza. È chiamata pornografia perché le persone tendono a essere attratte dal macabro, quindi finiscono per essere attratte anche da queste narrazioni cariche di dolore. È una sorta di sfruttamento emotivo delle situazioni difficili o dei momenti dolorosi”.

Appropriazione culturale: “L’appropriazione culturale è quando elementi culturali di un gruppo vengono assunti o utilizzati da individui esterni a quel gruppo senza il dovuto rispetto o comprensione della loro origine o significato. Questo fenomeno può verificarsi quando elementi culturali vengono presi e sfruttati senza considerare il contesto culturale più ampio o senza riconoscere la storia e le tradizioni delle persone di quel gruppo. La mia definizione preferita di appropriazione culturale l’ho ascoltata da Kaaj Shilya. Kaaj spiega che c’è una differenza tra appropriazione, apprezzamento e condivisione.

L’appropriazione culturale è strettamente legata all’apprezzamento culturale e all’appropriazione economica. Parliamo di appropriazione e apprezzamento quando vengono utilizzati elementi culturali per fini personali o commerciali senza il consenso o la partecipazione delle persone di quella cultura.

La condivisione culturale, invece, implica un approccio consapevole e rispettoso verso l’apprendimento delle culture altrui. Riconosce e valorizza le voci e le esperienze delle persone appartenenti a quelle culture. Per garantire una vera condivisione culturale è necessario che la persona attivi una riflessione critica sulle proprie azioni. Significa prendersi la responsabilità del modo con cui si partecipa e ci si relaziona a culture diverse dalla propria, cercando di evitare lo sfruttamento o la riduzione delle culture a semplici oggetti di consumo o di moda”.

Alley Oop compie 8 anni. Quali sono le sfide che dovrà affrontare nel prossimo futuro in tema diversità e inclusione?

In futuro Alley Oop dovrebbe concentrarsi sull’approfondimento e il mantenimento dell’autenticità del concetto di diversity & inclusion. Il rischio che vedo è che queste due parole vengano svuotate di significato e strumentalizzate per scopi commerciali o politici. La sfida secondo me è preservare il vero intento. Quello che ha dato origine a questo movimento. E di farlo resistendo alle influenze distorte del capitalismo e del populismo.

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