Oltre 600 milioni di donne vivono in Paesi colpiti da conflitti, dichiara l’Onu, in un momento storico in cui le tensioni stanno esplodendo in diverse parti del mondo. Una guerra parallela che non si racconta e che quasi mai trova giustizia, è quella che i soldati combattono contro le donne e i loro corpi. La violenza sessuale è il crimine di guerra più antico, più taciuto e meno condannato, costituisce un’arma di guerra, utilizzata per degradare e subordinare le donne, punire quelle politicamente attive e, attraverso i loro corpi, umiliare il nemico.
Il rapporto punta i riflettori sulla situazione umanitaria della sicurezza globale, che è diventata più cupa, con un impatto particolarmente pesante su donne e ragazze. In Afghanistan, ad esempio, i Talebani hanno emanato più di 50 editti per sopprimere i diritti delle donne e delle ragazze; e quando all’inizio di quest’anno sono scoppiati i combattimenti in Sudan, in Darfur è tornata una diffusa violenza sessuale, che ricorda il conflitto scoppiato nella regione due decenni fa. Inoltre, il rapporto condivide un quadro di declino in diversi paesi della partecipazione delle donne ai processi decisionali in materia di pace e sicurezza. Gli eventi di violenza politica contro le donne sono aumentati del 50% nei paesi colpiti da conflitti tra il 2020 e il 2022.
Urge un cambio di narrazione
La risoluzione 1325/2000 dell’Onu fu approvata all’unanimità nel 2000 dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu e rappresenta un cambiamento della prospettiva rispetto a certi temi. Si tratta, infatti, della prima risoluzione approvata dall’Organizzazione a menzionare, in maniera esplicita, l’impatto che le guerre hanno sulle donne e il loro contributo nelle risoluzioni dei conflitti armati e nell’attuazione della pace.
Quattro sono gli obiettivi principali della Risoluzione:
• riconoscere il ruolo fondamentale delle donne nella prevenzione e risoluzione dei conflitti;
• prevedere una maggiore partecipazione nei processi di mantenimento della pace e della sicurezza nazionale;
• adottare una “prospettiva di genere”;
• formare il personale sui diritti delle donne.
Una delle sfide più grandi per la risoluzione 1325 è quella di produrre una svolta culturale, che permetta un diverso inquadramento del ruolo delle donne nelle situazioni di conflitto, ancora troppo poco presenti tra i protagonisti dei processi di pace e sicurezza.
Eppure alle donne viene riconosciuta una forte capacità di peace-building, di dialogo tra le diverse fazioni coinvolte in un conflitto; viene riconosciuta loro anche la capacità di aumentare la trasparenza e il carattere inclusivo e sostenibile dei processi di pace.
Una raccomandazione chiave presentata nel rapporto dell’Onu è che almeno un terzo di tutti i partecipanti ai processi di mediazione e di pace siano donne, ma la realtà mostra che le donne rimangono emarginate dai principali negoziati. Sebbene le donne abbiano partecipato all’80% dei processi di pace guidati o co-guidati dalle Nazioni Unite, il loro numero effettivo è rimasto basso, pari solo al 16% circa del totale dei partecipanti, una percentuale che è diminuita per due anni consecutivi.
Le donne erano quasi completamente assenti da molti altri processi di pace e colloqui politici su situazioni all’ordine del giorno del Consiglio di Sicurezza, tra cui in Etiopia, Kosovo, Sudan, Myanmar e Libia. Nel rapporto si raccomanda inoltre di investire 300 milioni di dollari in nuovi impegni di finanziamento per le organizzazioni femminili in contesti di crisi nei prossimi tre anni; di fissare obiettivi ambiziosi per la partecipazione diretta delle donne alle delegazioni e ai gruppi negoziali, e nominare le donne come principali mediatrici nei processi di pace; di ridurre le spese militari e aumentare i finanziamenti agli sforzi di costruzione della pace delle donne che hanno ripetutamente dimostrato di essere efficaci e sostenibili; di garantire che i difensori dei diritti umani delle donne possano lavorare in sicurezza nei loro paesi d’origine o trasferirsi se necessario.
“L’appello delle madri”: donne israeliane e palestinesi insieme per la pace
«Dopo oltre 100 anni di conflitto, gestito per la maggior parte da uomini, le donne israeliane e palestinesi dicono “basta” e guidano un’azione coraggiosa e mirata, pianificata e coordinata in modo che i leader di entrambe le parti avviino i negoziati nel 2023 per la pace allo scopo di raggiungere un accordo onorevole e reciprocamente accettato per porre fine al conflitto».
Questo è solo un passaggio dell’accordo di partenariato sottoscritto da Women Wage Peace (WWP), israeliana, e Women of the Sun (WOS), palestinese, attive ognuna nella propria realtà e alleate in iniziative comuni. Sono numerose, anche se poco note, le associazioni israeliane e palestinesi che da decenni chiedono un accordo di pace e sembra paradossale parlarne proprio ora che è in corso un’escalation di violenza e rancore senza precedenti, ma forse proprio per questo è l’unica cosa da fare.
«Sia sul campo che virtualmente», si legge sul sito di WWP, «dal basso verso l’alto e dall’alto verso il basso: continuiamo con insistenza i nostri incontri nel parlamento israeliano, le nostre marce, le veglie mensili in tutto il paese, i programmi online settimanali, i webinar con interviste a esperti nella risoluzione dei conflitti e altro ancora».
WWP è organizzata per squadre regionali o per obiettivo e tra le iniziative vale la pena ricordare la proposta di legge “Political alternatives first” (priorità alle alternative politiche), che obbligherebbe il governo a considerare ogni possibilità prima di avviare un’operazione militare, e il collegamento con la gemella palestinese Women of the Sun.
Women Wage Peace e Women of the Sun hanno scritto insieme un testo. Lo hanno chiamato l’Appello delle madri che chiunque può sottoscrivere online.
Il testo in italiano recita:
Noi, donne palestinesi e israeliane di ogni ceto sociale, siamo unite nel desiderio umano di un futuro di pace, libertà, uguaglianza, diritti e sicurezza per i nostri figli e per le prossime generazioni.
Crediamo che anche la maggioranza dei cittadini delle nostre nazioni condivida il nostro comune desiderio. Chiediamo pertanto che i nostri leader ascoltino la nostra chiamata e avviino tempestivamente colloqui e negoziati di pace, con un impegno determinato a raggiungere una soluzione politica al lungo e doloroso conflitto entro un arco di tempo limitato.
Chiediamo ai popoli di entrambe le nazioni – palestinese e israeliano – e ai popoli della regione di unirsi al nostro appello e dimostrare il loro sostegno alla risoluzione del conflitto.
Chiediamo alle donne del mondo di stare al nostro fianco per un futuro di pace e sicurezza, prosperità, dignità e libertà per noi stesse, i nostri figli e la popolazione della regione.
Chiediamo alle persone di pace di tutto il mondo, giovani e anziani, leader religiosi, persone influenti, leader di comunità, educatori e coloro che hanno a cuore questa questione, di aggiungere la loro voce alla nostra chiamata.
Invitiamo i nostri leader ad ascoltare la voce e la volontà dei popoli in questo appello a risolvere il conflitto e raggiungere una pace giusta e inclusiva. Ci impegniamo ad assumere un ruolo attivo nel processo negoziale fino alla sua risoluzione positiva, in linea con la risoluzione 1325 delle Nazioni Unite.
Chiediamo ai nostri leader di mostrare coraggio e visione per realizzare questo cambiamento storico, a cui tutti aspiriamo. Uniamo le forze con determinazione e collaborazione per riportare la speranza ai nostri popoli.
“La pace è l’unica battaglia che vale la pena combattere”
Albert Camus
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