Sofferenza mentale: abbiamo bisogno di parole nuove

Una famiglia è riunita intorno al tavolo, al momento del caffè. “Che stai dicendo te che non capisci niente… lui c’ha una malattia seria”, dice Desirè al padre, riferendosi al fratello e alle difficoltà psicologiche che lo hanno portato ad un ricovero ospedaliero. Risponde il padre urlando: “Guarda che all’epoca mia quella che tu chiami depressione, come la chiamate voi, non esisteva… non esisteva perché bisognava darsi da fare per campare, per tirare avanti… hai capito o no? Generazione di viziati […] in tempo di guerra non ci stava la depressione!”.

Questo scambio è tratto da “Felicità”, l’ultimo film di Micaela Ramazzotti, che racconta con schiettezza quanto possa essere sterile e doloroso, ancora oggi, il dialogo genitori-figli sulle difficoltà psicologiche. Poiché il tema della Giornata mondiale della salute mentale del 2023 è Mental health is a universal human right e poiché ho sempre pensato che una cultura dei diritti si costruisca a partire dalle parole, vorrei condividere qualche riflessione su linguaggio e salute mentale: come ne parliamoche parole usiamo e quali effetti stia producendo un certo modo di parlarne.

Le parole dello stigma e quelle della svalutazione

Da un lato ci sono le parole del pregiudizio, dello stigma, della diversità: “pazzo”, “folle”, “fuori di testa”, eredità della cultura manicomiale e della segregazione, alimentano la discriminazione e l’esclusione, l’idea che chi vive una sofferenza psicologica sia anormale e sostanzialmente diverso da noi.  A queste si aggiungono le parole della svalutazione e della sottovalutazione, perché persiste in alcune fasce della nostra società una grande difficoltà a riconoscere dignità alla sofferenza psicologica, confusa con “scarsa volontà”, “pigrizia”, “svogliatezza”, “debolezza”, alibi per non studiare, lavorare, impegnarsi, come magistralmente espresso da papà Max (Tortora) in “Felicità”.

Nella società della performance, della prestazione e del successo, c’è scarsa comprensione per chi, a causa di una difficoltà psicologica, deve rallentare. In contesti nei quali manchino l’ascolto e la legittimazione, chi soffre può sentirsi “sbagliato”, “storto”, “debole” e “difettoso”. A fronte di frasi ormai note e radicate come “non c’è salute senza salute mentale” o “chiedere aiuto non è sintomo di debolezza, anzi di forza”, continuano a persistere svalutazioni, prese in giro e discriminazioni che inducono ad una sofferenza taciuta, silenziosa e solitaria.

“Date parole al dolore – scriveva William Shakespeare nel Macbeth – il dolore che non parla bisbiglia al cuore sovraccarico e gli ordina di spezzarsi”.

Le parole della patologia e i rischi dell’etichettamento

Dall’altro lato, bisogna riconoscere che nelle società occidentali non si è mai parlato tanto di salute e benessere psicologico quanto negli ultimi anni. Sulle riviste e nei quotidiani, nei podcast e sui social network (TikTok in primis), “salute mentale” è un vero e proprio trend: non si fa che parlare di ansia e depressione, disturbi alimentari e di personalità, ossessioni, compulsioni, psicosi, deliri, allucinazioni, traumi. Ma mentre questa  narrazione (o storytelling che dir si voglia) della salute mentale raggiunge l’importante obiettivo di fare spazio ad una riflessione sul benessere mentale, contrastando stigma e pregiudizi (“sharing is caring“, ossia “condividere è una carezza”), di fatto porta con sé anche il seme di un pericoloso fraintendimento: etichettiamo, ci etichettiamo e nell’etichettarci rischiamo di creare la patologia. Si tratta di un diverso livello problematico, certamente più sottile rispetto alle parole ostili e violente, nel quale la sofferenza viene riconosciuta e accolta ma è immediatamente incasellata nelle parole della diagnosi e nella patologia (e rinforzata dall’algoritmo: maggiore il tempo speso a guardare un video, più la piattaforma offre all’utente video simili).

Preoccupazioni, tristezza, difficoltà scolastiche sono stati soppiantati da “sono ansioso”, “sono depresso”, “ho un disturbo dell’apprendimento”: stati potenzialmente transitori o evolutivamente attesi rischiano di trasformarsi in diagnosi che suggeriscono una caratteristica stabile dell’identità. In molti oggi varcano la porta dello psicoterapeuta avendo già un nome e una categoria per il proprio malessere o per quello dei figli. Sempre più adolescenti si auto-diagnosticano un disturbo sui social, sebbene gli studi evidenzino il rischio della disinformazione sulle piattaforme. 

Ci fondiamo con i nostri pensieri, ove con fusione ci si riferisce a quella tendenza degli esseri umani ad essere catturati e imbrigliati dai propri pensieri, sperimentati in modo letterale, riconosciuti come verità: la persona diventa la sua condizione, la incarna, ci si identifica. Negli adolescenti la parabola che va dall’esperienza sentita e vissuta alla parola che traghetta all’interno della diagnosi può essere rapidissima.

Le parole da riscoprire 

Diamo parole al dolore, dunque, ma non dimentichiamoci che di parole dobbiamo averne tante, sfumate, come la sofferenza.

“Era un genio della tristezza, e in essa si tuffava disgiungendone i molti fili, apprezzandone le sfumature più sottili. Era un prisma attraverso cui la tristezza poteva suddividersi nel suo infinito spettro”, scrive Safran Foer. 

È di fondamentale importanza, ampliare il nostro vocabolario emotivo e la capacità di cogliere le sfumature delle emozioni, tanto sul versante gioioso quanto su quello della sofferenza, scoraggiando facili etichettamenti e diagnosi inappropriate. Alle parole che imprigionano preferire quelle che liberano, che sciolgono i legami del linguaggio e che curano. Come diceva Wittgenstein, le parole che scegliamo cambiano il mondo nel quale noi stessi viviamo e cambiano il mondo di coloro che incontriamo.

Non solo parlare di più, dunque, ma parlare meglio di questioni psicologiche e salute mentale. Impegniamoci a scegliere con cura le parole e accompagniamo bambini e ragazzi nello sviluppo di questa capacità, perché la lingua è il materiale di cui siamo fatti. Se e quando soffriranno, godranno del diritto a ricevere parole umane, sensibili, rispettose.

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