Diversità, tutto quello che non ci dicono

Shata con i suoi genitori

Avevo quattro anni quando i miei genitori si sono separati. O forse ne avevo due. “Quanti anni avevo quando vi siete separati?”. Faccio questa e altre domande a mia madre almeno ogni tre mesi. Da otto anni. Ma non riesco mai a memorizzare le risposte. Credo di saper ascoltare con attenzione, di riuscire ad assimilare rapidamente molte informazioni. Eppure questo è un dato che respingo.

Quando sono stata invitata a fare il mio primo TEDx, ho subito deciso che avrei raccontato un pezzo della mia storia. Volevo raccontare di me, ma la verità è che non esisto senza le storie dei miei genitori. E quindi ho deciso di raccontare della loro separazione. Ho chiesto a mia madre, ancora una volta, di ricordarmi quanti anni avessi quando si sono separati. Perché nei TEDx non si può dire “tra i 2 e 5 anni”. Bisogna aiutare gli spettatori a visualizzare ogni parola. Servono date, numeri precisi. Lei come sempre mi ha risposto. Ormai non si scoccia neanche più. È una di quelle domande che ricordano a me e a lei che alcune parole toccano un dolore profondissimo. Mezz’ora dopo già mi ero scordata la risposta. Avrei dovuto scriverla. Dovrei segnare su un quadernino tutte le risposte che non memorizzo mai. Ma è troppo faticoso.

E quindi alla fine mi sono stufata e ho scelto di dire “quattro anni”.

Quando mi chiedono se la mia infanzia è stata felice rispondo di “sì”. Mi ricordo amata, da mia madre e da mio padre. Mi ricordo precisa, poco capricciosa, molto gelosa delle mie cose. Mi ricordo innamorata dei miei genitori.

La mia, 30 anni fa, era una famiglia un po’ particolare. Mia madre Anna-Maria, italiana e cattolica. Bionda, riccia. Molto femminista. Una scout. Nata in Liguria e cresciuta a Roma. Ha trascorso la sua adolescenza a sfidare il sistema. Ha lasciato fluire dentro sé l’energia della vita. Politica. Anni di cooperazione internazionale in Nicaragua. Un quintale di libri. Quei libri, lei dice sempre, saranno l’eredità più grande che mi lascerà. Finché ha scelto (anche se in realtà non ha avuto scelta) di iniziare una nuova vita di amore incondizionato. Quella nostra. Mia e sua. Madre e figlia. Oggi mia mamma lavora come impiegata.

Mio padre Yaya, ivoriano e musulmano. Nato ad Abidjan in una famiglia enorme. Ha trascorso la sua infanzia senza genitori (morti entrambi quando era piccolo) e a lavorare sulle navi. Tredici fratelli. Riso, patate, platano. Una sigaretta al giorno divisa con gli amici. Ha dormito nello stesso letto fino a 24 anni. Poi ha lasciato la famiglia ed è venuto in Italia. Oggi mio padre vive in Francia e fa l’idraulico. Nel suo furgoncino che trasporta caldaie e cavi ascolta Renato Zero, preghiere dell’Imam e (non con mia grande ammirazione) Gigi D’Alessio.

Anna-Maria e Yaya, i genitori di Shata

Quando hanno saputo che avrebbero avuto una figlia femmina hanno iniziato a ragionare sul nome. Mio padre mi avrebbe voluto chiamare Bianca o Chiara. Ma mia madre gli ha fatto presente che non glielo avrei mai perdonato. Potevo nascere bianca, nera o in mille altre sfumature. Se fossi stata nera, Bianca o Chiara sarebbero stati una condanna.

Per un po’ di tempo, poi, ho pensato di essere stata adottata. Quando camminavo per strada con mia mamma glielo domandavano tutti. Vai a spiegare a una bambina che ragionamenti fanno gli adulti.

Chi mi incontra, spesso, mi immagina figlia di diplomatici. Perché sono nera, giovane, sveglia, molto istruita. Ma i miei sono persone semplici. Persone semplici che si sono trovate. Mi domandano anche come si sono incontrati. Questi due personaggi così diversi. Durante una serata, tramite amici di amici. Niente di speciale.

Tra loro non ha funzionato e quella frattura che muove i divorzi è stata la mia rovina e la mia fortuna più grande. I motivi del divorzio (come per tutti i divorzi) sono stati molti. Ma la verità è che all’apice delle ragioni ce n’è una enorme e molto dolorosa: la diversità culturale. Non so neanche quanto è durata la loro storia, perché è un’altra di quelle informazioni che il mio cervello non vuole conservare.

“La diversità è un valore?”, mi chiedo. Vorrei rispondermi di sì. Vorrei rispondermi di sì da sempre. C’è qualcosa dentro di me che si spezza e diventa sabbia, quando mi faccio questa domanda. No, la diversità non basta”. È la mia risposta.

Tutte le sere a cena si discuteva su quanto riempire il bicchiere d’acqua. Mia madre abituata a riempire il bicchiere d’acqua a metà. Mio padre abituato a riempirlo fino all’orlo. Prima a tutte le persone a tavola. Solo alla fine a sé stesso. Discussioni infinite su quanto riempire quel bicchiere d’acqua. Che poi: perché riempiamo il bicchiere d’acqua a metà?

La medicina: mia madre con i farmaci da banco prescritti dal medico di base, mio padre con le candele e gli unguenti curativi inviati dalla Costa d’Avorio.

La cultura religiosa: in Italia si festeggia il Natale e la Pasqua. Mica il Ramadan. Mi hanno lasciata libera di scegliere.  Ho scelto a cinque anni (altro numero inventato sul momento, perché non lo memorizzo) di fare il battesimo. Un po’ sulla scia di quello che sentivo a scuola. Alla cerimonia ha partecipato anche mio padre, perché il prete ha scelto di parlare sempre di Dio e mai di Gesù. Per includerlo. Sono stata battezzata Shata Maria.

Cose piccole e grandi che raccontano di modi molto diversi di guardare il mondo e leggere la realtà. La differenza è stata così grande che è come se fosse implosa.

Esiste una forma di depressione molto brutta. È la depressione di chi perde le sue radici. Chi perde i punti di riferimento culturali, perde l’identità. Questo è proprio quello che è successo a mio padre. Mangiato, disidratato, risucchiato dal vortice della cultura occidentale. E quello che ne è venuto dopo è stata il percorso più doloroso in assoluto. Ed è un percorso che prosegue fino a oggi.

E così quella della diversità è diventata la mia missione di vita. Un po’ egoisticamente per alleviare i brutti ricordi e la fatica di una famiglia che ce l’ha messa tutta, un po’ per assicurarmi che nessuna relazione, comunità, debba più spezzarsi perché le differenze culturali sono troppo ingombranti.

“La diversità è un valore?”, ho continuato a chiedermi. È una domanda che ci facciamo troppo poco. Anche noi. Persone che si occupano di diversità e inclusione. Negli anni ho iniziato a costruire le prime risposte. Ma soprattutto ho scoperto tre cose che nessuno mi aveva mai detto, e che non ci dicono, sulla diversità.

 Siamo fatti per costruire con chi ci somiglia

C’è poco da fare. Il nostro cervello funziona per similitudini. Siamo più attratti da persone che sono più simili a noi. E invece più respingenti, a volte spaventati, da persone che da noi sono molto diverse. Per relazionarci con la diversità dobbiamo fare uno sforzo. Come tutte quelle volte in cui parliamo in una lingua che non conosciamo bene. Oppure quando ascoltiamo uno straniero. Oppure quando arriva nel team un collega che ha un atteggiamento così diverso dal nostro. O quando scegliamo di portare in trasferta un collega dello stesso sesso perché ci sentiamo più a nostro agio. Evitiamo la fatica tutte le volte che possiamo.

 Il racconto “siamo tutti uguali” è una grandissima bugia

Ognuno di noi porta con sé così tante diversità che non è possibile catalogarle. Dirci che siamo tutti uguali significa appiattire le differenze. Come a dire che sarebbe una buona idea annullare il Natale e il Ramadan per creare una nuova festa che rappresenti tutti. Io ad esempio sono nera. È vero. Ma sono anche figlia della mia storia, della mia famiglia. Sono figlia della città in cui sono nata e cresciuta, Roma. E del mio accento. Sono figlia delle mie paure e delle mie sofferenze. Delle mie gioie e delle mie soddisfazioni.  Sono moglie, non sono madre. Sono figlia e sono amica. Alcune di queste diversità mi hanno messa e mi metteranno nella mia vita nella condizione di ottenere delle opportunità. Alcune di queste diversità mi hanno messa e mi metteranno nella mia vita nella condizione di perdere delle opportunità. Non tutte le diversità sono uguali. Alcune ci mettono in mano un privilegio. Altre uno svantaggio.

La diversità non basta

Questa, per me, è stata la scoperta più grande. Nel TEDx dico che avevo sette anni. Ma non sapendo organizzare in ordine cronologico gli episodi che riguardano la storia della mia famiglia, è probabile che ne avessi di meno. O forse di più. In realtà mia madre me lo ha fatto notare dopo aver letto lo script dell’intervento. Ovviamente non ricordo più la risposta.

Era domenica. I miei erano già separati. La separazione è stata dolorosa ma molto collaborativa. Tutti c’eravamo per tutti, non ci lasciavamo mai soli. La separazione non ci ha (quasi) mai allontanati. Mio padre si era trovato una stanza non troppo lontana da casa. Anche se trovarla non era stato semplice. Se è difficile trovare una stanza in affitto per uno studente, immaginate per un uomo nero, adulto e precario.

La domenica mio padre veniva a casa e mangiavamo insieme. Ci divertivamo tantissimo. Giocavamo con le Bratz e guardavamo i cartoni animati. Quel giorno chiesi; “Perché non preghiamo tutti insieme?”Provate a immaginare le loro espressioni. E come si fa? Sono fedi diverse, rituali unici, storie insostituibili. Ma era una domanda lecita. Non ha senso fare la stessa cosa ma divisi e in modo diverso.

Se qualcuno in quel momento mi avesse chiesto “La diversità è un valore?”, avrei risposto che no, la diversità non basta. La diversità, nella mia casa, aumentava la fatica. Rendeva ogni decisione lunga. E una bambina sparava di tanto in tanto delle domande troppo complicate. E così i miei condivisero una proposta: “Preghiamo tutti insieme, la domenica, dieci minuti, mano nella mano a occhi chiusi”.

Ricordo benissimo la prima domenica di preghiera tutti insieme, eravamo sul nostro divano di vimini. Io ero al centro, mia mamma era a destra e mio papà a sinistra. Mano nella mano, a occhi chiusi. Non so dire loro in quel momento a che cosa pregassero o in che lingua. Io saltellavo tra italiano e francese, Ave Maria e Sure. Pregavo a un Dio che in quel momento per me non aveva un nome.

Era una magia, di quelle che non si possono spiegare a parole. Sentivo le mie mani collegate alle loro. Vibrazioni. Come scintille che schizzano velocemente da una parte all’altra. Mamma di qua, papà di là. Io a connettere, mai a distruggere, sempre a creare.

Il senso dell’Inclusione

Quel momento mi ha segnata irrimediabilmente. Ha definito il mio scopo di vita e il motivo per cui sento di essere a questo mondo. L’impegno che ho deciso di prendere con me stessa e con le comunità a cui scelgo di appartenere. Connettere. È un dono, a volte un peso.

Ma soprattutto quel momento ha illuminato la risposta alla mia domanda. Per far funzionare la diversità serve Inclusione. L’ho sentita potentissima. C’era connessione, uno scopo comune. Eppure le diversità erano ancora li. Tra mia madre, mio padre e io che non somigliavo a nessuno dei due.

Per me, questo che abbiamo istituito in famiglia, è stato un rituale di gratitudine. Gratitudine per il tempo che i miei hanno dedicato a costruire qualcosa che raccontasse di tutti e tre. Si sono tolti un pezzo, e hanno creato una cosa che non c’era. 

È questo il senso dell’Inclusione. Mi piace dirmi e dire che Inclusione non è aggiungere un posto a tavola, ma fare il proprio posto più piccolo. La verità è che i posti a tavola sono limitati. Quelli del potere, dell’economia, della politica. Sarebbe bello dirci che possiamo moltiplicare il potere. Ma non è così. I posti sono quelli lì e per fare Inclusione dobbiamo essere disposti a toglierci qualcosa.

Per avere più donne al vertice dobbiamo avere meno uomini al vertice. Meno di quelli che ce ne sono adesso. Per inserire donne in uno stabilimento produttivo è necessario creare un nuovo spogliatoio. E per farlo bisogna ridurre le dimensioni dello spogliatoio dei maschi. Per fare spazio ai giovani bisogna mettere in discussione le regole del mondo del lavoro, che vedono in cima alla lista: ufficio, produttività, posto fisso, lavoro no stop. E così via. È così che funziona il mondo. Il privilegio va lasciato, per fare spazio agli altri.

Significa rinunciare al proprio privilegio. Non siamo disposti a farlo sempre. Non lo sono neanche io. Significa rinunciare, noi, al nostro privilegio. E non pretendere che sia il nuovo arrivato a rinunciarci.

Ne parliamo spesso, con mia madre. Da quando sono piccola e ancora di più da quando ho iniziato a studiare i processi di inclusione. Quando mi sono scontrata con il modo con cui funzionano le relazioni e le organizzazioni. Un modo complesso. Privilegiato.

“Sarebbe potuta andare diversamente?”. È quello che mi chiedo se penso alla mia famiglia. È una domanda che non ci abbandona mai. Noi, esseri umani che hanno vissuto relazioni fallimentari. Poteva esserci un lieto fine? I miei hanno rinunciato ad abbastanza, per fare spazio all’altro?

E io a cosa sono disposta a rinunciare? E noi, a cosa siamo disposti a rinunciare? E tu, a cosa sei disposto a rinunciare per fare spazio a qualcun altro?

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  • Lorenzo |

    Complimenti.. davvero una lettura interessante e stimolante. Grazie!

  • Elena Brescacin |

    Ciao Shata,
    Mi permetto di darti del “tu” perché in qualche modo siamo colleghe: anch’io mi occupo di inclusione, sebbene in altro ambito cioè l’accessibilità digitale e nella comunicazione ma gli spunti che poni in questo pezzo, possono valere per le diversità culturali e anche le altre.
    Partiamo subito: io sono una persona priva della vista. Dalla nascita. Non vedo niente, neanche la luce. Di conseguenza a me il colore della pelle altrui è indifferente; chi più di me potrebbe dire “bianco nero giallo cosa cambia”? Eppure, se lo facessi, racconterei una bugia enorme soprattutto a me stessa.
    Non è vero che siamo tutti uguali, ossia, lo siamo come esigenze di base: cibo, acqua, relazioni, lavoro, benessere fisico e mentale.
    Il punto è però che allo stesso tempo siamo tutti diversi perché abbiamo esigenze differenti uno dall’altro!
    Prendiamo un esempio banale, un piatto di pasta al ragù.
    La persona musulmana praticante potrebbe dire “se il ragù contiene anche carne di suino la mia religione non mi permette di consumarlo”.
    Una persona vegetariana potrebbe dire “ma io non consumo carne”, quindi resterebbe a pancia vuota.
    Chi ha una disabilità motoria alle braccia, è costretto a farsi imboccare e quando la pasta è tanto sugosa è facile sbrodolarsi ovunque.
    Io stessa non ho tutte queste enormi esigenze però per non sbrodolarmi ho bisogno che la pasta sia messa in un piatto fondo. E se in certi ristoranti usano servirti la pasta sul piatto piano, ogni volta mi tocca chiedergli quello fondo e farla portare indietro perché neanche si pongono il problema; se è pasta corta -penne, orecchiette, ecc- oltre al piatto fondo vado meglio a mangiarla con un cucchiaio e anche là, mi tocca chiedere perché “in automatico” non ci pensano mai, a meno che non sia un ristorante che mi conosce da un sacco.
    Secondo me, nell’affrontare i temi della “diversità e inclusione”, abbiamo sbagliato approccio perché la tendenza è stata quella di ispirarsi all’utopia di John Lennon su Imagine: appianare le differenze piuttosto che conoscerle, ascoltarle, conviverci.
    Il tuo racconto sulla preghiera a occhi chiusi mano nella mano mi ha colpito molto, io non sono credente ma l’ho trovato un buon compromesso perché la preghiera è qualcosa di così intimo che neanche sarebbe da discuterlo: chi prega Dio, chi Allah, chi non crede a nulla ma coglie l’occasione per riflettere e “guardarsi dentro”, le mani che si stringono e trasmettono messaggi di sostegno reciproco. Io mi sono immaginata così la vostra scena.
    Da adolescente ho frequentato gli scout cattolici e questo mi ha permesso di compiere la mia scelta di non credere in alcuna religione eseguendo un percorso, tutti i momenti di ritiro e preghiera per me sono stati preziosissimi perché mentre gli altri recitavano padre nostro, ave Maria, ecc… io mi prendevo il tempo per stare un po’ con me. Non ho sentito di avere un dio vicino, ma ho imparato a volermi bene.

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