Pubblicità e molestie, il silenzio non protegge le vittime

Giulia Segalla è rimasta nell’ombra per 12 anni, anche quando del suo caso di molestie sessuali nel mondo delle agenzie pubblicitarie milanesi si parlava e si discuteva. Copywriter, a 20 era stagista in una grande agenzia milanese, un sogno che per lei si è trasformato troppo rapidamente. Tanto da tenerla lontana, per anni, da Milano. Anni in cui ha cercato prima di dimenticare, come molti le hanno suggerito, di andare oltre, poi di lavorare su di sé per affrontare e superare quel trauma con cui oggi sta facendo i conti. Il rimpianto è quello di non aver potuto contribuire a salvare altre ragazze che, negli anni successivi, hanno dovuto subire lo stesso trattamento in un settore, quello delle agenzie pubblicitarie, che presenta criticità e carenze e problematiche specifiche, oltre a quelle tipiche della cultura patriarcale e stereotipata in cui siamo immersi.

Si è parlato di un MeToo della pubblicità, dopo che è stato raccontato il tuo caso ne sono emersi molti altri. Tu pensi che il mondo della pubblicità abbia un problema in quanto tale, per la sua natura?

Il mio caso è stato raccontato già 12 anni fa, da Massimo Guastini. La differenza più rilevante, tra allora e oggi, è che per tutto questo tempo il mio nome è stato protetto dall’anonimato mentre oggi è di dominio pubblico. Nel 2011 la mia storia è apparsa su un blog molto seguito. Nel 2016 è stata condivisa su LinkedIn. Nel 2018 è arrivata all’attenzione dell’Associazione nazionale più importante nel settore. Nel 2023 ha ricevuto riscontro mediatico perché Massimo Guastini ha raccontato di nuovo i fatti, questa volta a Monica Rossi. Solo a quel punto mi sono resa conto che proteggere la mia identità significava continuare a esporre altre donne al rischio di essere molestate, o peggio, e ho preso la decisione di rendere pubblico il mio nome perché non ci fosse più alcun dubbio riguardo la veridicità delle vicende documentate.

Il fatto che sia stato necessario così tanto tempo – e un infinito atto di coraggio – per scomodare l’opinione generale dei professionisti e delle associazioni, risponde da sé a questa domanda. Il mondo della pubblicità non ha un problema, ne ha diversi, solo il primo è generalizzato: nasce in un contesto culturale in cui si tramandano da sempre stereotipi di genere. Il problema settoriale, a mio parere, si manifesta nel fatto che il mondo della pubblicità sa di poter fare leva sui sogni delle persone che ci lavorano. Quindi da un lato l’ambiente è intriso di preconcetti (la donna è utile, l’uomo può emergere) dall’altro prosciuga la passione chiedendo sacrifici e compromessi di ogni tipo. Chi muove le pedine dai piani alti delle agenzie, questi problemi li conosce molto bene e li usa da anni a proprio vantaggio, sotto agli occhi di tutti, creando dinamiche interne che di normale non hanno proprio niente. Parlo di turni di lavoro massacranti, orari indefiniti, consegne nei weekend, competizioni malsane, lavori gratuiti per vincere le gare, richieste inopportune basate su giochi di potere, contratti di lavoro illegali, pressioni logoranti che vanno in evidente contrasto con i bisogni primari di ogni individuo e con i diritti che dovrebbero essere garantiti a tutti dalla Costituzione. Parlare di questi problemi significa ancora oggi ricevere attacchi, isolamento, minacce e diffamazioni, anche dai propri stessi colleghi (e non solo a Milano).

Giulia Segalla

Quanto ha contato il contesto per te, nell’elaborazione di quanto hai subito?

Prima del 9 giugno 2023 (quando è stata pubblicata l’intervista di Guastini a Monica Rossi, ndr), il contesto davanti alla mia storia ha risposto con indifferenza, connivenza e rassegnazione facendomi percepire che il problema era solo mio e che dovevo arrangiarmi a fare i conti con la mia incapacità di accettare certi compromessi. Oltre al trauma che ho subìto con quella terribile esperienza, è stato molto doloroso rendermi conto che i professionisti che avevo tanto ammirato, di cui avevo letto i libri e amato i lavori, sotto il profilo umano non erano in grado di guardare al di là degli schermi dei loro computer per vederci una ragazzina di 20 anni messa all’angolo da un uomo di 50 in una posizione di potere. Le conseguenze di quel 4 gennaio 2011 – la notte in cui ho accettato un passaggio e mi sono trovata dentro a un’auto, in una strada isolata con un molestatore che prima aveva fatto di tutto per mostrarsi un collega e padre di famiglia affidabile – mi hanno portata a vivere nella diffidenza e nella paura verso l’altro. Tuttora viaggio solo con chi conosco bene. Ma non ho il coraggio di prendere un taxi perché per tutto il tempo vivrei nel terrore di non sapere come e se ne uscirei mai. Noi viviamo in una società che ci dà il privilegio di sentirci al sicuro. Dover convivere con i meccanismi ancestrali del pericolo di vita è un’esperienza con la quale normalmente, la maggior parte delle persone, in Italia, non si trova mai ad avere a che fare. Per fortuna la ventenne che sono stata non era completamente sola. Non lo dico per alimentare la narrazione mitologica dell’uomo-eroe, lo dico perché così sono andati i fatti, che piaccia o meno: in questi 12 anni, Massimo avrebbe potuto dimenticare, rinunciare a farmi prendere consapevolezza del trauma che mi porto addosso, andare avanti. Se avesse scelto questa strada, oggi io avrei una ferita in più, a questo punto incurabile. Il dolore inesplorato pesa su chi lo ha vissuto e su chi gli sta attorno, modifica vite. Il consiglio molto diffuso di “andare avanti e lasciarsi tutto alle spalle” è un’utopia che non risponde alle necessità dell’anima, non riconosce la sofferenza altrui e soffoca quelle che sono evidenti richieste d’aiuto aggiungendo dolore su dolore.

Cosa ha significato parlare delle molestie subite dopo così tanti anni?

Da un certo punto di vista è stato come riappropriarmi di una parte di me che mi era stata negata e smettere di vivere nella paura. Per anni ho controllato chi partecipava agli eventi di settore, prima di andarci. Per anni ho verificato se all’interno dei team con cui stavo per iniziare a lavorare c’era il nome di chi ancora mi terrorizzava. E, per anni, non sono mai più tornata a Milano per la paura di risvegliare l’interesse nei miei confronti. Espormi mi ha portata automaticamente su una dimensione protetta. Il fatto che il mio accaduto e il mio nome siano di dominio pubblico mi permette oggi di contare, quanto meno, su una consapevolezza e su una responsabilità collettiva che sa e che, di conseguenza, può intervenire in mia difesa. Chi convive in silenzio con storie di violenze e abusi è costretto a trovare espedienti per non lasciare l’agenzia, il settore o il territorio. Si trova, ad esempio, a dire di no a delle occasioni di lavoro, a fare assenze apparentemente ingiustificate, a sentirsi dare della poco socievole o dell’inaffidabile, magari perché quella volta che doveva andare in trasferta non ha retto l’idea di trovarsi da sola nella camera a fianco a quella del proprio molestatore. E quindi ha rinunciato. E quindi ha perso il lavoro. Il silenzio non protegge le vittime, le logora, le esclude dal sistema, le relega in ruoli subalterni poco edificanti, le costringe a vivere una vita rassegnata all’ingiustizia, alla connivenza e all’omertà, con tutte le conseguenze che non restano chiuse dentro le mura di un ufficio.

Perché dici che serve tempo per “uscire allo scoperto” se si è stati vittima di molestie?

Mi rendo conto che sia difficile mettersi nei panni di chi subisce violenze e abusi per capire come mai così tante donne non scelgano la via apparentemente più ovvia: la denuncia immediata. Provo a spiegare la situazione con un esempio concreto. Se io, salendo le scale, cado e mi procuro una ferita evidente, le persone attorno a me mi presteranno aiuto immediato, mi porteranno da chi di dovere e mi sottoporranno alle cure necessarie o ai procedimenti burocratici successivi perché i miei diritti vengano tutelati e la mia salute ripristinata. Le vittime di molestie, violenze e abusi vengono lasciate sole, in fondo a quella scala, perché prestare loro aiuto significa correre il rischio di trovarsi in una posizione scomoda rispetto al contesto. Nella migliore delle ipotesi, le vittime si trovano qualcuno davanti, anche a distanza di anni, che le incolpa di intralciare il passaggio, di non essere state abbastanza attente, di non aver avuto la forza di evitare la situazione nella quale si sono trovate e di non essere riuscite a medicarsi a dovere. Se non bastasse questo esempio, il 21 giugno del 2023 ho scritto un elenco di 13 motivi che spiegano bene perché le vittime non si salvano da sole.
Nel 2011, i termini previsti per denunciare una molestia erano di 6 mesi. Oggi sono 12 mesi. Io ci ho messo 12 anni a uscire allo scoperto e ancora adesso, nel percorso di psicoterapia che sto affrontando, rivivere quell’evento mi provoca ansia, stress, paura e dolore. Ogni volta che qualcuno mi chiede di raccontare non riesco ad andare completamente oltre quel muro di difesa che mi allontana immediatamente dall’idea di rivivere la vicenda e di risentire tutto addosso ancora.

Posso dire che la Legge è sbagliata? Lo dico. Non dovrebbero esistere termini temporali per denunciare esperienze traumatiche perché sì, anche le molestie creano traumi indelebili nelle vite delle persone. Il fatto che vengano tralasciate e poco considerate, rispetto a reati che hanno la stessa matrice, che nascono nello stesso terreno e che puntano all’umiliazione e all’annientamento della donna, come gli stupri, le percosse e i femminicidi, è un errore inqualificabile a cui qualcuno dovrebbe porre immediatamente rimedio.  Finché la Legge stessa sottovaluta le molestie, come possiamo pensare che chi le subisce si senta incoraggiato a denunciarle? Il sistema ha già ampiamente dimostrato la sua inefficacia, non capisco che cosa stiamo aspettando ancora.

Cosa ti pesa, dell’aver aspettato?

Mi pesano tutte le storie di dolore che si sono accumulate dopo la mia. Mi pesa essere consapevole del cambio di rotta che ha subìto la mia vita dopo quell’evento. Se il contesto fosse stato pronto e mi avesse dato la possibilità di difendermi, di aiutarmi, di sentirmi meno sola, forse oggi quella lista di altre 11 ragazze molestate non esisterebbe. E forse altri personaggi, in altre agenzie, sarebbero stati allontanati dai ruoli di potere che hanno permesso loro di perpetrare indisturbati altro male. Non posso sapere come sarebbero andate le cose se fossi riuscita a denunciare e se il settore non si fosse voltato dall’altra parte davanti alla mia vicenda, ma posso dire che confrontarmi con l’indifferenza collettiva è stata per me l’ennesima violenza. Ogni giorno faccio i conti con gli strascichi che mi porto dietro da questi 12 anni di silenzio. E mi pesa sapere che la ragazzina di 20 anni che ero abbia avuto il tempo di diventare la donna di 34 che sono oggi per portare in questo settore l’adulto di cui avrebbe avuto bisogno lei nel 2011 e che a quanto pare non trova ancora tante altre spalle su cui contare.

Cosa è successo, dopo il tuo outing, che ti aspettavi e cosa, invece, ti ha sorpreso, in positivo e in negativo? Quali sono le difficoltà che ti sei trovata ad affrontare e qual è il bilancio, seppur non definitivo, che fai dell’aver deciso di parlare?

Dopo il mio outing, ho ricevuto moltissimo sostegno morale dalla rete e dal contesto creativo di Milano. Ma sono anche stata travolta da un’ondata di odio da parte di uomini e donne, di tutta Italia, che sul web o in privato hanno sentito il bisogno di invitarmi a “farmi curare da uno bravo” visto che in 12 anni non sono riuscita ad adeguarmi all’andamento generale di chi banalizza le esperienze traumatiche e a
fare altrettanto con il mio vissuto. Più di una donna mi ha definita pubblicamente online (cito) “una poverina” per aver avuto bisogno dell’aiuto di un uomo (Massimo) per farmi forza e uscire allo scoperto. Qualcuno ha insinuato che io sia l’amante di Massimo perché non potrebbero esserci altri motivi validi per giustificare il fatto di aver preso posto a fianco a lui in una vicenda che ci riguarda entrambi in prima persona da 12 anni e che ha inciso sulle nostre vite. Sono stata accusata di ricercare visibilità, di strumentalizzare l’accaduto per fare carriera, di voler scalare le vette della politica. Qualcun altro ha ben pensato di creare contenuti da fiction su questa vicenda senza neanche interpellare le parti, prendendo il mio nome e usandolo a suo piacimento, manipolando i fatti per far sembrare la realtà diversa da quella che è, diffamando Massimo e Monica, le uniche due persone che mi hanno aiutata, protetta, difesa, che non hanno mai smesso di esserci, le uniche che hanno fatto qualcosa di concreto per me. In ogni caso, non ho dubbi: se tornassi indietro direi di nuovo pubblicamente la verità all’istante. E continuerò a farlo tutte le volte che servirà. Mi spiace dover constatare che chi potrebbe dare dei segnali per sostenere cambiamenti reali si preoccupi ancora troppo di ripulire la credibilità delle associazioni, di scrivere belle parole che resteranno solo sulla carta e di consegnare premi più che di aiutare concretamente chi subisce ogni giorno, chi fa parte di una minoranza mai considerata, chi non può contare su certi privilegi (stagisti, partite iva, sottopagati, precari, tutte quelle persone che non vediamo ai grandi eventi internazionali e che non possono pagare per fare parte di un club perché quotidianamente prosciugati da un contesto che li vampirizza. Loro, che non sono amici di nessuno ai piani alti, qualcuno li considererà?).

Come stai oggi? E cosa vorresti dire a una ragazza che si trova in una situazione simile a quella che la Giulia ventenne ha dovuto affrontare?

Vivo un periodo complesso. Sto elaborando un trauma mai affrontato attraverso un percorso di psicoterapia che mi aiuta a convivere con quell’esperienza senza risvegliare periodicamente, a ogni imprevisto, la terribile sensazione del pericolo di vita. Sto affrontando questo momento con la responsabilità di una 34enne e con l’insofferenza di chi ha passato 12 anni a guardare il mondo della pubblicità non cambiare di una virgola. A oggi, sono al di là del limite massimo di sopportazione, il che significa che farò ogni cosa possibile perché, per altri giovani pubblicitari, il futuro sia diverso da quello che a me ha rubato l’ingenuità, la genuinità e i sogni. A una ragazza che si trova in una situazione simile a quella che ho vissuto io dico di avere coraggio, di non stare zitta, di diventare lei la persona che avrebbe bisogno di trovarsi a fianco. Le raccomando di trasformare il male che ha ricevuto in qualcosa di sano per fare del bene a sé e agli altri. Le auguro di trovare compagni di viaggio fidati come quelli che ho avuto la fortuna di incontrare io in Massimo Guastini e in Monica Rossi.

Cosa pensi debba cambiare perché abusi come questi non debbano più essere subiti?

Premesso che il problema di base nasce da un contesto culturale che tramanda stereotipi di genere, temo che prima di tutto ognuno di noi debba fare lo sforzo di cambiare la percezione dei ruoli che gli sono stati inculcati dalle generazioni del passato, per puro senso di civiltà verso se stessi e verso gli altri. Ma questa è una situazione alla quale porranno rimedio solo la cultura, l’educazione e il tempo. In pubblicità deve cambiare il senso collettivo di responsabilità. Nel contesto che è stato tratteggiato, ognuno di noi deve essere consapevole del peso delle proprie azioni nelle vite altrui e ristabilire le priorità: è più importante star zitti e buoni al proprio posto o prendere le difese di quella collega che forse stasera tornerà a casa pensando al suicidio? È questa la dimensione del problema e non si risolve con un comunicato stampa. Le Associazioni dovrebbero tornare a preoccuparsi di riportare in vita quel senso di appartenenza che crea collettività, condivisione e unione tra i soci, non solo creare grandi piramidi imprenditoriali costellate da premi e riconoscimenti. Potrebbero interessarsi alla creazione di un Sindacato che tuteli l’intero settore, anche i liberi professionisti, e non solo chi riesce ad “arrivare”, qualsiasi cosa voglia dire questa parola. Perché non lo fanno? La stragrande maggioranza delle agenzie vìola quotidianamente la legge proponendo contratti di lavoro subalterni mascherati da partite Iva che, massacrate dalla quantità di richieste via via sempre più pressante, si trovano a lavorare per un unico committente con introiti ridicoli. La maggioranza di queste Partite Iva è costretta a lavorare 80-100 ore a settimana, compreso il weekend. Serve dirlo che nessuno gli paga gli straordinari? Il modello di business delle agenzie è fondato sull’illegalità. Mi sembra una questione abbastanza importante per interessare le Associazioni di settore. O dobbiamo portare la stampa nazionale a parlare anche di questo per ottenere considerazione da parte di chi può e deve intervenire? Dovrei a questo punto citare anche il Governo, le Istituzioni. Mi limito a ribadire quanto ho già scritto: la legge che riguarda i termini di denuncia delle molestie è sbagliata, va modificata.

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Se stai subendo stalking, violenza verbale o psicologica, violenza fisica puoi chiamare per avere aiuto o anche solo per chiedere un consiglio il 1522 (il numero è gratuito anche dai cellulari). Se preferisci, puoi chattare con le operatrici direttamente da qui.

Puoi rivolgerti a uno dei numerosi centri antiviolenza sul territorio nazionale, dove potrai trovare ascolto, consigli pratici e una rete di supporto concreto. La lista dei centri aderenti alla rete D.i.Re è qui.

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