A Palermo e a Caivano non ci sono mostri, ci sono i nostri figli

Gli stupratori di Palermo, quelli di Caivano sono dei mostri, come li abbiamo sentiti chiamare? Certo, leggendo i terribili racconti delle vittime, i resoconti della cronaca, i messaggi agghiaccianti e violenti che si sono scambiati dopo i fatti, la tentazione di allontanarli da noi e dal nostro essere umani è forte. In fondo, definirli mostri ci mette al sicuro, ci permette di pensare che loro non sono come noi.

Ma sarebbe un grave errore non riconoscere che quei violenti giovani uomini sono i nostri figli, o almeno potrebbero esserlo. Nessuno di noi può sentirsi escluso: sono i figli di una cultura in cui viviamo ogni giorno, di una società che mette la donna ancora oggi un gradino sotto, che la paga di meno, la considera di meno, che la denigra e la tratta da oggetto. I ragazzi e le ragazze non fanno che riflettere questi modelli.

Educazione sessista

Colpiscono le frasi che emergono dai discorsi degli stupratori, frasi da manuale, che mostrano quelle distorsioni cognitive di deumanizzazione e oggettivizzazione della vittima tipiche di questi casi. Al di là delle singole storie, in cui sicuramente potremmo trovare fattori personali e di rischio, è fondamentale il clima culturale che produce e legittima questo tipo di violenza nelle relazioni interpersonali“.

Francesca Garbarino, criminologa clinica e vicepresidente Cipm, si occupa da oltre 25 anni si occupa del trattamento di autori di reati sessuali e di reati connessi alla violenza di genere e mette l’accento, evidenziando la multifattorialità e la complessità delle condotte violente, su quanto conti l’educazione, “una forte educazione sessista, che non fa che perpetrare stupri e violenze“. Un’educazione che rimanda un modello di donna oggetto, con stereotipi di genere radicati, che legittimano le violenze negando che siano tali, biasimando la vittima e i suoi comportamenti e non gli stupratori. “Impera – dice Garbarino – una rappresentazione idealizzata di una mascolinità onnipotente, così come la compulsività del sesso (“la carne è carne”) e l’aspetto della dominazione”.

Un’immagine svilente dell’uomo

Alla base di tutto questo c’è “il disvalore nei confronti delle donne: sono loro a dover prevenire lo stupro, sono loro che lo hanno favorito. Ma non solo: anche la condizione maschile non è valorizzata, c’è un’immagine svilente dell’uomo, come se non potesse fare altro, una concezione del rapporto sessuale basato solo sul testosterone, un altro stereotipo forte, perché le ricerche non ci dicono certo questo!“, afferma Garbarino.

Serve quindi un investimento educativo e culturare forte e strutturato, secondo l’esperta, che passi per le scuole come per i media. “La prevenzione passa per l’educazione alla relazione, al rispetto, alla richiesta d’aiuto, mentre una volta che il reato è stato commesso nel caso degli autori di reato minorenni si deve leggere l’atto violento come un indice di disagio forte, un SOS che non possiamo ignorare perché soprattutto a quell’età c’è l’opportunità di cambiamento“. E’ fondamentale educare e offrire un trattamento agli autori della violenza mettendo al centro l’attenzione nei confronti della vittima che non è stata vista, che è stata resa oggetto, lavorando sul rispetto, l’empatia, la parità, la capacità di avere relazioni intime soddisfacenti.

 Che cosa vuol dire comportarsi da maschi?

Alla base degli stupri c’è il modello di maschilità di tipo tradizionale e allo stesso tempo a stessa crisi del patriarcato. La sensazione è che ci sia da parte dei più giovani un senso di smarrimento: il modello patriarcale – per fortuna – è in crisi, ma non ci sono modelli maschili alternativi presenti“, ragiona Giuseppe Burgio, professore ordinario di Pedagogia all’Università di Enna “Kore”.

Parliamo di una minoranza dei ragazzi, certo, ma questa è una premessa importante: la maggiornaza dei ragazzi e delle ragazze oggi risulta essere molto più inclusiva e partitaria rispetto al genere. C’è tuttavia “una minoranza che non possiamo ignorare che cerca delle scorciatoie e trova la soluzione nel modello maschile più forte, più tradizionale, che garantisce il privilegio e l’asimmetria“.

Il fatto che migliaia di persone abbiano cercato il video dello stupratore (cosa per altro punibile penalmente) ci mostra che non parliamo di un caso isolato, di un mostro, di una mela marcia. Ma di un modello culturale ancora molto diffuso se non prevalente di dominio e sopraffazione anche sessuale degli uomini sulle donne. Un modello culturale che vediamo rispecchiato nella pornografia, troppo spesso l’unica forma di educazione sessuale a cui accedono i più giovani.

La pornografia rispecchia spesso quello che vediamo tutti i giorni nella nostra società. Educhiamo differentemente maschi e femmine: per esempio, c’è una grande disponibilità genitoriale a consentire o anche favorire incontri intimi del proprio figlio nelle mura domestiche, ma la stessa cosa non vale per le figlie“, dice Burgio.

Il ruolo degli uomini

Un modello di maschilità che si esprime negando l’altro e che si afferma attraverso la misoginia, il razzismo e l’omofobia. Essere maschi, troppo spesso, significa “dominio, supremazia, capacità di guadagnare soldi in maniera spudorata e di stuprare in corsa, essere una sex machine che tiene il conto delle sue performance sessuali“, dice Burgio.

Finché questo modello risulta vincente, non possiamo neanche sorprenderci se uno degli stupratori di Palermo racconta poi di aver ricevuto richieste di incontro da numerose ragazze. E tutto questo, poi, viene amplificato dai social: “Il cosiddetto prestigio virile viene rafforzato con la circolazione del video dello stupro, che rappresenta i violenti come delle sex machine“.

Gli studi sugli uomini abusanti mostrano che una delle ipotesi alla base della violenza di genere è che la violenza serve perché mantiene i privilegi maschili, serve a mantenere la gerarchia patriarcale, mentre altre ipotesi sottolineano come il privilegio patriarcale venga visto come messo in crisi e, per questo, le donne vadano “rimesse al loro posto”.

Noi uomini dobbiamo assumerci la responsabilità: io godo di privilegi, posso aspirare a lavoro e retribuzione migliore, posso tornare tardi la sera e non essere violentato, il lavoro di cura non mi spetta per tradizione. Riconoscere che godo di privilegi e assumere una postura pro femminista per cambiare la società è quello che dobbiamo fare. Perché il patriarcato è una struttura tossica anche per noi uomini: nessun genitore vorrebbe il figlio stupratore ma li cresciamo così“, conclude Burgio.

Educare per smontare gli stereotipi

Da dove partire per cambiare un modello culturale? Un ruolo fondamentale (anche se non può essere l’unico) è sicuramente quello delle scuole, dove però i progetti di educazione all’affettività, educazione di genere ed educazione alla sessualità sono troppo spesso sporadici e non strutturali, legati alla buona volontà dei dirigenti o degli insegnanti o alla disponibilità di risorse spot.

Maria Grazia Giuffrida è la presidente dell’Istituto degli Innocenti di Firenze, una delle più antiche istituzioni pubbliche italiane dedicate all’accoglienza dei bambini, alla loro educazione e tutela. “Negli ultimi anni – dice Giuffrida – l’Istituto si è impegnato anche sul tema della violenza di genere e sull’abbattimento degli stereotipi tra i più giovani (in particolare sugli stereotipi sulla mascolinità) e sta portando avanti due progetti per la prevenzione finanziati dall’Ue, Engaged in equality e Carmia (Caring masculinities in action). Si tratta di progetti particolarmente innovativi che hanno incluso attività di ricerca e formazione attraverso metodologie partecipative, che hanno coinvolto anche i ragazzi, create grazie allo scambio con enti di ricerca internazionali“.

Stiamo vivendo per molti versi un processo contraddittorio: da un lato ci sono ragazze e ragazzi che stanno riflettendo sui modelli di genere tradizionali e stanno andando oltre: nei progetti che abbiamo fatto nelle scuole abbiamo trovato grande disponibilità di allievi e insegnanti a lavorare sugli stereotipi e sulla maschilità. Ci aspettavamo magari risatine o ironia, abbiamo trovato grande apertura e poco imbarazzo“, racconta Erika Bernacchi, ricercatrice dell’Istituto.

Di fronte a questa apertura, troviamo però i casi come quello di Palermo, in cui viene messa in scena una maschilità fortemente tossica e violenta, aderente al modello tradizionale patriarcale. “Non sorprende che lo facciano in gruppo, perché è proprio il gruppo che conferma loro l’essere maschi“, sottolinea Bernacchi. E sullo sradicamento di questo modello alle radici è importante lavorare anche se, dice la ricercatrice, “i progetti educativi in questo senso sono ancora troppo pochi e troppo spesso a intermittenza“.

In più, sottolinea, “il problema da tenere presente è di non cadere nell’aspetto moralistico, non si tratta di insegnare ai ragazzi le buone maniere, ma di mostrare come il concetto di maschilità sia costruito socialmente e quindi possa essere modificato a vantaggio degli stessi ragazzi“.

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Se stai subendo stalking, violenza verbale o psicologica, violenza fisica puoi chiamare per avere aiuto o anche solo per chiedere un consiglio il 1522 (il numero è gratuito anche dai cellulari). Se preferisci, puoi chattare con le operatrici direttamente da qui.

Puoi rivolgerti a uno dei numerosi centri antiviolenza sul territorio nazionale, dove potrai trovare ascolto, consigli pratici e una rete di supporto concreto. La lista dei centri aderenti alla rete D.i.Re è qui.

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