Costruire il futuro: pace e cooperazione al centro del Mem Summit di Lugano

Le ragazze e i ragazzi del Middle East Mediterranean Summer Summit (Mem) chiacchierano all’ingresso dell’Università della Svizzera italiana: voci colorate da accenti diversi si mescolano ai commenti sul programma di un evento che per dieci giorni riunisce circa quaranta partecipanti provenienti dalla regione mediorientale mediterranea a Lugano. Parliamo del Mem, il seminario estivo che nasce nel 2018 da un’intuizione dell’Università della Svizzera italiana in collaborazione con la Divisione Medio Oriente e Nord Africa (Mena) del Dipartimento federale degli affari esteri svizzero, che ne è il partner principale. Con l’acronimo Mem si intende la regione del Mediterraneo e del Medio Oriente, che definisce lo spazio culturale esteso dal Marocco all’Iran. 

Il progetto
“Con questo progetto vogliamo sviluppare nuovi approcci e punti di vista che vadano oltre i confini fisici e culturali delle comunità della regione Mem grazie al contributo attivo dei giovani partecipanti
change-maker”, spiega ad Alley Oop Federica Frediani, docente dell’Università Svizzera italiana e project leader del Mem. “Il Summit è uno spazio sicuro per incontrarsi, condividendo idee ed esperienze diverse che diventano importanti proprio per costruire la dimensione di una comprensione reciproca”

Per le strade di Lugano durante i giorni dell’evento, che si è svolto quest’anno dal 17 al 26 agosto, è facile vedere sfilare bandiere di ogni latitudine che sono spillette sullo zaino, quaderni e cover di libri tematici. L’atmosfera internazionale descrive a pieno la vocazione di questa città che può essere considerata un vero e proprio laboratorio di comunità.

Quando si sente parlare di change maker si fa in realtà riferimento a un termine usato per la prima volta nel 1981 da Bill Drayton, imprenditore sociale e fondatore di Ashoka, l’organizzazione no-profit internazionale che supporta progetti di impresa sociale in tutto il mondo. Inizialmente change maker era il titolo della newsletter che Ashoka inviava ai propri iscritti, poi è diventato il nome di un programma di lavoro articolato in iniziative e investimenti per sostenere imprenditori sociali in cerca di risorse per realizzare i propri progetti. Questa parola si è diffusa nel tempo al punto da diventare la definizione per coloro che portano avanti il cambiamento per il bene comune.

La settimana del Mem
Change maker assume un significato ancora più reale nel momento in cui si partecipa a eventi come il Mem, dove le giovani generazioni sono coinvolte in sessioni di confronto sulle sfide contemporanee più urgenti e possono mettere a disposizione degli altri le proprie competenze per avere un impatto reale all’interno delle comunità. Vengono da ogni parte della regione mediorientale mediterranea, hanno età e percorsi accademici diversi, ma sono tutti pronti a raccontarsi cosa si aspettano dal futuro che cambia. La loro giornata inizia con i panel di approfondimento sui temi di questa edizione come la necessità di difendere la pace lungo i confini, la transizione ecologica e digitale, facendo al tempo stesso il punto sulle attuali configurazioni geopolitiche.

Da una parte ci sono quindi gli esperti, che sono politici, giornalisti e rappresentanti delle istituzioni, dall’altra una platea di ragazze e ragazzi che chiedono  un’interazione multiforme tra persone e Paesi, che includa le loro diverse identità e le risposte a domande comuni, una soluzione strutturale per la gestione del fenomeno migratorio e una maggiore attenzione alla difesa dei diritti umani, civili e sociali, a partire dalla tutela della pace lungo i confini. E lo fanno con un grado di preparazione che mette alle corde chi pensa ai giovani solo come sdraiati o creatori di contenuti social.

Come immaginano il mondo i giovani
L’occasione del seminario permette di fare un esercizio interessante e persino romantico: come vogliono il mondo le nuove generazioni? “Quando arrivi a Lugano, all’Università della Svizzera italiana, è come sentirsi su un altro pianeta, perché si è circondati da coetanei visionari che pensano a un mondo diverso partendo proprio dalle nostre diversità, che non sono più soltanto definizioni, tradizioni o persino ragioni di divisione, ma diventano un vero e proprio metodo per capire la realtà”, dice Fatima Zamba, partecipante Mem. Viene dal Marocco ed è specializzata in Collective Intelligence. Ci spiega che fino a quando non si ascoltano le storie di chi abita in territori complessi, di cui si seguono le vicende spesso solo di sfuggita alla tv, non se ne possono comprendere le dinamiche e non si è capaci di immaginare soluzioni.

Ne è convinta anche Fatemeh Farivar, studentessa iraniana di un master in Global Studies che partecipa per la prima volta al seminario: “Durante la settimana del Mem è come se fossimo tutti uniti da una prospettiva comune, che vede negli ideali di pace e cooperazione una guida: grazie ai workshop e alle occasioni di confronto è stato come ritrovarsi”. Tuttavia il fatto di essere uniti dalla stessa base valoriale non inibisce le differenze di ciascuno che nel contesto del Mem trovano piuttosto una sintesi, come ricorda l’israeliano Adi Haresh, oggi di base in Europa dove lavora come project manager presso lo European Institute of Innovation and Technology.

I temi
I risultati del seminario sono stati poi raccontati durante la giornata conclusiva del Mem, durante il forum aperto al pubblico costruito intorno a tre focus differenti: dalle attuali configurazioni geopolitiche della regione mediorientale mediterranea, alle sfida del cambiamento climatico e il ruolo della cultura. Si pensi per esempio al fatto che questa regione è particolarmente vulnerabile agli effetti del cambiamento climatico. Secondo studi recenti si sta assistendo al suo riscaldamento a un ritmo doppio rispetto alla media globale, con il rischio di diventare inabitabile entro il 2050 a causa di problemi come la scarsità di risorse idriche, l’insicurezza alimentare, l’intensificazione dei disastri naturali, l’incremento dei flussi migratori e l’intensificazione dei conflitti.

Durante il panel dedicato alla discussione sul tema, è stato presentato il progetto Selma a cui lavora l’ingegnera tunisina Maryem Fitouri specializzata in agrifood. Si tratta di una iniziativa a favore dell’agricoltura sostenibile, riservata soprattutto alle donne interessate ad avviare realtà imprenditoriali agroecologiche. “Grazie a questa esperienza aiutiamo le minoranze ad avere accesso a risorse per iniziare un percorso nelle piccole-medie imprese. Grazie al mio lavoro ho stabilito un rapporto sacro con la natura, al punto da essere consapevole di quanto sia essenziale ogni centimetro quadrato di suolo e ogni goccia d’acqua”, racconta Fitouri ad Alley. “Tra le altre cose, sono anche ricercatrice nell’ambito del progetto Ithaca di Horizon 2020, dove effettuiamo interviste con i migranti per costruire un archivio digitale delle loro storie in Europa e nella regione del Mediterraneo, sviluppando così politiche migratorie innovative”.

Poi c’è Yousra Mishmish, dalla Giordania, che dopo una laurea in ingegneria informatica ha conseguito un diploma in gestione dei conflitti presso Fryshuset-Sweden. Yousra è anche membro dell’ufficio dell’Onu per l’antiterrorismo e lavora con un team globale di innovatori alla progettazione di programmi internazionali per i giovani rifugiati siriani usando l’arte come terapia.

La vetta di Nasim Eshqi
Un’altra storia di emancipazione arriva dalle parole di Nasim Eshqi, la scalatrice iraniana che combatte il regime con il suo esempio di libertà. Per anni ha vissuto una doppia vita: in montagna seguiva le sue leggi, in città invece era obbligata a rispettare quelle della Repubblica islamica per sopravvivere. Una donna non poteva praticare quello sport e, più in generale, non poteva ambire al concetto di vetta. Ha cominciato a fare free climbing, a scalare le montagne del suo Paese e all’estero: in India, in Oman, in Turchia, in Armenia, negli Emirati Arabi, in Georgia e poi sulle Alpi. Fino a oggi ha aperto più di cento nuove vie in alta quota, anche nelle zone più remote dell’Iran.

“Sono diventata una pioniera. Ho avuto una vita difficile, poi ho detto basta. Non voglio più stare zitta, ma essere la voce delle donne iraniane. Ci vorrà ancora del tempo, ma insieme sento che è possibile”. Quando ha deciso di fermarsi in Europa, di venire in Italia, perché era troppo conosciuta per tornare indietro, era già scoppiata la rivolta in nome di Masha Amini. La sua storia è diventata un documentario diretto da Francesca Borghetti, Climbing Iran, a cui è seguito poi un podcast per Rai Play Sound, Iran Verticale”. Oggi le due autrici, nonché amiche al punto da definirsi sorelle, stanno lavorando a un libro sulla vicenda: per certe storie dopotutto più è grande l’eco, maggiore è l’impatto che possono avere su un’altra vita.

Durante il Middle East Mediterranean emerge una leadership gentile con cui affrontare il mondo consapevoli della sua complessità ma anche delle nostre capacità e possibilità di cambiarlo. E i partecipanti si sono dimostrati change maker critici, perché solo così si può tentare di risolvere le contraddizioni delle comunità e rispondere alle sfide del nostro tempo. Secondo Fatima Zamba, oggi le priorità con cui confrontarsi, come la pace, la transizione verde e digitale, vanno intese in un’ottica globale: non si può guardare al mondo dalla finestra dei propri interessi, occorre piuttosto mettersi insieme per fare la differenza

A Lugano, nella dimensione del Mem, il progetto di un mondo che cambia non è un bell’ideale cui rendere omaggio per poi occuparsi d’altro, ma un obiettivo per cui agire ora, nella nostra generazione. Non si tratta di un invito a sognare, muovendosi nella retorica di mettere al centro i giovani: qui i ragazzi e le ragazze siedono per davvero al tavolo della discussione e da qui sanno guardare lontano.

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