C’era bisogno di un potente blockbuster che salvasse il cinema dalla crisi di pubblico, e ad agosto le giganti produzioni americane ne hanno offerti ben due: Barbie e Oppenheimer. Due film completamente diversi, per temi, atmosfere, modalità narrative. Ma c’è una cosa soprattutto in cui i due film differiscono in modo incolmabile.
Barbie vs Oppenheimer
Da più voci è stato attribuito a Barbie un ruolo marcatamente disruptive rispetto alle tematiche femminili e alla discusione sugli stereotipi di genere e le disuguaglianze, un film magari non incisivo come un saggio della scrittrice americana bell hooks, ma capace di portare in cima ai temi del giorno la discussione su questi temi.
Al contrario, Oppenheimer si inserisce perfettamente nella tradizione tematica di un’americanissima visione del mondo come una saga fumettologica: il bene e il male, i buoni e i cattivi, il compiacimento moralista nel mescolare le carte per mostrare il puntino di yin nello yang (e viceversa). Il tutto, certo, offerto con maestria registica e attorale, nonché scenografica, di ambientazione, costumi, tutta una ricostruzione cinematografica accurata e godibile.
Ma se è vero che da Cristopher Nolan non ci aspettavamo niente di meno, è anche vero che al film si attribuisce la particolarità di essere un’indagine nelle contraddizioni e nei quesiti morali che ruotano attorno al rapporto scienza/società. È vero che, in quegli anni in cui gli investimenti in ricerca e sviluppo negli Stati Uniti d’America sono aumentati di due ordini di grandezza, il rapporto tra scienza e società ha subito una svolta davvero significativa.
“I will have nothing to do with a bomb”
Poco prima dello sgancio delle bombe su Hiroshima e Nagasaki, c’è stata una data importante nel percorso di questa relazione: il 25 luglio 1945, lo United States Government Printing Office trasmise al nuovo presidente degli Stati Uniti, Harry S. Truman, il rapporto “Science: The Endless Frontier” firmato da Vannevar Bush, matematico e ingegnere che dirigeva l’Office of Scientific Research and Developement. Le discussioni attorno a questo rapporto, miravano a definire i rapporti di forza e lo spazio di dialogo tra governo federale degli Stati Uniti e ricerca scientifica.
“In questa discussione e in queste azioni si inseriscono anche gli scienziati “reduci” dal Manhattan Project, convinti di avere precise responsabilità nella nuova era atomica che si sta aprendo e convinti altresì che l’accelerazione nell’evoluzione dei rapporti tra scienza e società non riguardi solo la dimensione della politica di governo ma investa l’intero caleidoscopio delle dimensioni in cui si articola la vita sociale” scrive il professor Pietro Greco nel saggio “Hiroshima. La fisica ha conosciuto il peccato“, Editori Riuniti.
Ma oltre a questi “reduci”, i fisici e gli scienziati che rifiutarono fin dal principio di partecipare al progetto furono diversi, a dimostrazione del fatto che fosse ben chiaro a cosa stava tendendo il finanziamento federale improvvisamente così interessato alla ricerca scientifica.
Una su tutti, Lise Meitner, rifiutò i ripetuti inviti a prendere parte al progetto Manhattan preferendo la vita da esule in Svezia (era ebrea), con una frase lapidaria: “Non avrò nulla a che fare con una bomba“. La sua coerenza con una visione pacifista delle possibilità scientifiche, le varrà l’epitaffio “Lise Meitner, una fisica che non perse mai la sua umanità“. Ebbene, in tutta l’analisi storica e morale del film, una posizione netta come quella di Meitner non ha trovato alcuno spazio.
Effetto Matilda
Meitner è la fisica che accanto a Otto Hahn e Fritz Strassmann diede l’interpretazione corretta del fenomeno osservato in laboratorio che prese il nome di fissione nucleare. A sua volta aveva raccolto l’ipotesi da Ida Noddack, fisica che nel 1934 già aveva suggerito la teoria, interpretando gli esperimenti di Enrico Fermi.
Certo non possiamo pensare che in tre ore di film vi fosse la possibilità di citare i nomi perlomeno di queste due scienziate e del loro genio, e d’altra parte siamo abituati e vedere scomparire le donne dietro al cosiddetto “effetto Matilda“, fenomeno per il quale, soprattutto in campo scientifico, il risultato del lavoro di ricerca compiuto da una donna viene in tutto o in parte attribuito a un uomo.
I laboratori sono posti da uomini. Le università e accademie sono posti da uomini. Le istituzioni e i luoghi del potere sono posti da uomini. Questa è l’immagine che, ancora, imperterrita e instancabile, rimanda il film di Nolan. Le donne compaiono come segretarie o mogli, a un certo punto a Los Alamos arriva una chimica, ma il suo nome non viene praticamente citato e nelle scene in cui è presente non è altro che una comparsa senza battute.
Le scienziate nel Progetto Manhattan
Eppure le scienziate nel Progetto Manhattan c’erano. Matematiche, fisiche, chimiche, biologhe e analiste computazionali. Alcune erano leader nei loro campi. La fisica teorica Maria Goeppert Mayer ha condiviso un premio Nobel per la fisica con due uomini nel 1963. Chien-Shiung Wu era una fisica nucleare che fornì nel 1933 la prima conferma della teoria del decadimento beta del fisico Enrico Fermi.
Naomi Livesay era una matematica a cui l’Università del Wisconsin aveva precluso il dottorato di ricerca in matematica perché, come disse uno dei professori del dipartimento di matematica, “non c’è posto per nessuna donna nella matematica superiore” (episodio riportato dal Washington Post).
E come non citare la fisica Leona Woods, che lavorò con Fermi presso il sito del Progetto Manhattan a Chicago allo sviluppo del primo reattore nucleare. La fotografia che la ritrae circondata dai colleghi uomini del progetto, fa pensare alla ricerca della fotografa Immy Humes “L’unica donna nella stanza”, che racconta il fenomeno “l’unica donna” attraverso il tempo, le culture, i settori.
Chi erano Jean Tatlock e Kitty Puening?
Va bene, Oppenheimer è un biopic, un dramma storico, un’indagine nella fascinazione nolaniana per i dilemmi morali e scientifici. Eppure anche nei personaggi femminili vicini al grande scienziato ci sarebbe stata molta più complessità rispetto alla rappresentazione sentimentale e accessoria che ne è stata fatta.
A cominciare da Kitty Puening, moglie di Oppenheimer, interpretata dall’attrice britannica Emily Blunt. Nata in Germania da una famiglia di origini nobili, si trasferì in America all’età di due anni. Kitty fu sposata tre volte prima di incontrare Oppenheimer: il secondo matrimonio fu con un giovane comunista di nome Joe Dallet nel 1934. La coppia si trasferì in Francia e Dallet si unì alle forze comuniste che combattevano nella guerra civile spagnola, dove fu ucciso in combattimento nel 1937, spingendo Kitty a tornare negli Stati Uniti. Qui riprese gli studi, interrotti più volte a causa dei matrimoni, e conseguì una laurea in botanica presso l’Università della Pennsylvania. Incontrò Oppenheimer quello stesso anno mentre era sposata con il suo terzo marito, Richard Harrison. Kitty divorziò e sposò Oppenheimer il 1 novembre 1940.
La personalità di Kitty è stata raccontata da amici e biografi come complessa e ricca di profondità: estremamente intelligente, affascinante, Kitty non voleva essere limitata al tradizionale ruolo di moglie, scrivono Kai Bird e Martin J. Sherwin in “Oppenheimer, trionfo e caduta dell’inventore della bomba atomica” (Grazanti), libro che ha ispirato il film di Nolan. Ha lavorato part-time per un anno come tecnica di laboratorio a Los Alamos, studiando i rischi per la salute delle radiazioni. Aveva delle sue ambizioni di carriera e “si sentiva sempre più intrappolata” e “ostacolata professionalmente“. Sentimenti che ha conservato anni dopo a Princeton, dove suo marito era direttore dell’Institute for Advanced Study. Lì, scrivono gli autori, Kitty si è sentita costretta a “recitare il ruolo della ‘moglie del regista’” ed “era come una tigre in gabbia”.
Non è difficile immaginare quanto e come il matrimonio e la maternità (così come vissute secondo le aspettative degli anni Quaranta) abbiano influito sull’instabilità e l’alcolismo di Kitty. Eppure tutta questa frustrazione viene risolta nel film in una scena in cui si allude chiaramente alla depressione post partum e la donna viene presentata solo attraverso scorci di vita casalinga, oppure in relazione al marito.
L’altro personaggio femminile nella sceneggiatura è quello interpretato da Florence Pugh (che peraltro è stata vittima di body shaming per le scene di nudo nel film: pare che per una parte di pubblico avesse troppa pancia per recitare nuda).
Si tratta di Jean Tatlock, studentessa in medicina ai tempi dell’incontro con Oppenheimer e poi psichiatra. Per anni i due ebbero una relazione sentimentale, cruciale anche per gli imbarazzi politici che dovette gestire lo scienziato ai tempi delle accuse post-belliche. Tatlock, infatti, era una convinta comunista, fedele al sogno della rivoluzione, e coinvolse con convinzione Oppenheimer negli incontri e nelle cause politiche, come le lotte sindacali.
Amante della letteratura, condivise con lui anche l’amore per John Dunne, che con un verso fornì l’ispirazione per il nome della bomba atomica “Trinity”: “Batter my heart, three person’d God“, “scuoti il mio cuore, Dio dalle tre persone”. In Tatlock convivevano l’amore per l’arte, la solida moralità politica e la fascinazione per le profondità dell’animo umano; viene descritta nel suddetto libro come “geniale”, “promettente“, “incredibilmente intelligente”, ma tutto questo nel film viene rappresentato con una prepotente sessualizzazione e con la morbosità di un’attrazione reciprocamente distruttiva. Eros e Thanatos, déjà vu.
In un’intervista a MTV UK, Florence Pugh ha raccontato che perfino Christopher Nolan si è scusato quando le ha mandato il copione per la parte di Jean Tatlock: per le poche battute, per la dimensione che il personaggio ha nella trama, forse consapevole che si potesse raccontare meglio che come un’amante capricciosa che durante il sesso chiede all’amante di leggerle versi in sanscrito.
Cosa manca in queste narrazioni?
Su Vogue UK hanno ripercorso la storia dei personaggi femminili nei film di Nolan. Anne Hathaway e Jessica Chastain in Interstellar, sono in gran parte definite dalle loro relazioni con gli uomini nel film; per il resto è “una vera e propria terra desolata di mogli morte che servono a motivare i protagonisti maschili (Jorja Fox in Memento, Piper Perabo e Rebecca Hall in The Prestige, Marion Cotillard in Inception, la moglie del personaggio di Matthew McConaughey in Interstellar); interessi amorosi morti (Lucy Russell in Following, Maggie Gyllenhaal in The Dark Knight); ragazze adolescenti assassinate (Crystal Lowe in Insomnia); donne disperatamente bisognose di essere salvate (Katie Holmes in Batman Begins, Elizabeth Debicki in Tenet); cattivi morti (Marion Cotillard in The Dark Knight Rises, Dimple Kapadia in Tenet); e allegri aiutanti (Hilary Swank in Insomnia, Scarlett Johansson in The Prestige, Elliot Page in Inception, Anne Hathaway in The Dark Knight Rises). E poi c’è Dunkirk, che non ha alcun personaggio femminile con nome“.
Se la sensazione è, di fondo, di vedere sempre lo stesso film, al di là e al di sopra dei colpi di genio contestuali, forse un fondo di verità c’è. Forse le narrazioni tendono a ripetere uno schema che, una volta svelato, ha perso la sua verve. Forse abbiamo bisogno di storie nuove, con vere domande e vere indagini nell’insoluto e nel non conosciuto. Forse assegnare questo compito solo ai personaggi maschili (per di più con la belligeranza culturale americana) non è più così funzionale.
Forse sarebbe il momento per un cambio di rotta che, in fondo, abbiamo già intravisto. Non deve portarci per forza a Barbieland. Ma che almeno ci porti via da questa visione parziale del mondo.
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