Perché neghiamo il nostro privilegio

Tutte le sere, sul divano, le discussioni con mio marito hanno origine dallo stesso irrisolvibile problema. Abbiamo due divani ma guarda un po’ tutti e due abbiamo la stessa preferenza: è il divano più grande, più comodo e più centrato con la televisione.

Ci sediamo, scegliamo il film. Dopo dieci minuti dall’inizio del film io mi stendo e lui fa lo stesso. Lui allunga le gambe e io mi innervosisco perché così non ho più spazio. Quindi con prepotenza allungo le gambe e anche io e lui si infastidisce. Allora passiamo più o meno tutto il film a discutere e cercare di incastrarci alla perfezione. Missione mai riuscita.

Nel mentre di questo dialogo non verbale le cose che ci diciamo sono sempre le stesse:

Io: dobbiamo riempire lo spazio a metà, tu occupi più di metà. Facciamo che ognuno sta nella sua metà.

Lui: non è giusto riempire lo spazio a metà perché io sono più lungo, non puoi chiedermi di stringermi così tanto.

Io: se stai scomodo cambia divano, ne abbiamo due.

Lui: questo divano mi piace di più, spostati tu.

Io: anche a me piace di più, non mi muovo.

Lui: e allora facciamoci spazio.

Io: ma non è che se tu sei più lungo hai più diritto a occupare più spazio di me.

Solitamente questa discussione prosegue per tutta la serata, oppure (ammetto, raramente) si conclude con io che molto arrabbiata cedo e cambio divano.

Potremmo prendere un divano più grande? Si. Potremmo farci una risata? Si. Potremmo parlarne per trovare un accordo permanente? Si.

Ma la verità è che questo rituale per me è speciale. Lo è ogni giorno. Come una doccia fredda o un pugnale estremamente doloroso. È il mio reminder quotidiano sul senso del privilegio.

Il privilegio è il divano più bello

Definito in riferimento ai gruppi sociali, il privilegio implica vantaggi innati (non collegati a merito o capacità) di gruppi sociali al potere in un contesto di discriminazione sistemica.

Ma andiamo per gradi.

Il divano più bello, nell’ecosistema sociale, corrisponde ai ruoli di vertice, ai lavori ben retribuiti, alla magrezza, allo standard di bellezza, alle città che offrono tante opportunità, al passaporto che non richiede visti per varcare i confini. Il divano bello corrisponde alla porta d’accesso alla ricchezza, all’agio, al potere, alla comodità.

Ma il divano più bello ha uno spazio molto limitato. Non tutti hanno il privilegio di potersi sedere li.

C’è qualcuno che è più lungo e quindi ingombra più spazio. Chi è più lungo non è colpevole per essere più lungo. È nato così. E quindi per la sua lunghezza occupa da sempre e crede di avere il diritto di poter occupare uno spazio più grande. È un diritto di nascita, perché è abituato da sempre a potersi stendere e se non lo fa si sente scomodo. E chi è più lungo non è abituato a sedersi in modo scomodo. Tantomeno a lasciare più spazio a qualcun altro perché è più corto.

Questo è il senso del privilegio: occupare (anche involontariamente) più spazio, senza rendersi conto che si sta occupando più spazio del dovuto.

Quando pensiamo al privilegio ci viene in mente chi nasce ricco. Chi ha avuto fortuna. Ma il privilegio è molto di più di questo.

Il privilegio non è una scelta

Il privilegio è quando abbiamo accesso a cose belle e importanti. Un accesso che altri non hanno. È un vantaggio, un potere, un’immunità o un diritto concesso o conferito dal gruppo socialmente dominante a una persona o a un gruppo solo per diritto di nascita.

Esiste un accordo di base tra gli autori su quali siano le cinque componenti del privilegio:

  1. È un vantaggio speciale, non è né comune né universale. È speciale perché è solo di pochi e perché non è trasferibile.
  2. È concesso, non guadagnato o ottenuto grazie allo sforzo o al talento individuale.

  3. È un diritto o un’autorizzazione che fornisce uno status o un rango privilegiato. Quindi consente di accedere con più facilità a opportunità o risorse.

  4.  Viene esercitato a beneficio di chi lo riceve, escludendo o danneggiando gli altri. Infatti, visto che i posti sul divano sono pochi, è più probabile che ad allungare le gambe sia la persona più lunga. E il merito non c’entra niente.

  5. È spesso al di fuori della consapevolezza della persona che lo possiede. Non ci rendiamo conto del nostro privilegio finchè non sbattiamo il muso su chi quel privilegio non ce l’ha. Finchè non ci avviciniamo e osserviamo con i nostri occhi chi subisce razzismo, sessismo o chi non ha potuto studiare. Oppure quando viaggiamo e ci troviamo in luoghi lontani in cui il nostro privilegio non conta più, e allora ci sentiamo discriminati.

Il problema è che le persone privilegiate spesso credono che le loro qualità personali giustifichino specificamente la loro inclusione nel gruppo sociale, mentre contemporaneamente non sono consapevoli della portata e dell’impatto di questi privilegi.

Il privilegio è sistemico

E poi c’è qualcuno che è più corto. Essendo più corto è da sempre abituato a occupare meno spazio. Quindi non solo di natura occupa meno spazio, ma da sempre è abituato a contorcere braccia e gambe per farsi ancora più piccolo. Perché lo sa che l’aspettativa sociale è che occupi e ingrombi meno spazio. È anche abituato a sentirsi scomodo oppure a rinunciare al divano più bello per stare più comodo su un divano meno comodo.

Questo è il senso della discriminazione sistemica: occupare meno spazio perché da sempre quello spazio gli è stato negato. E nel tentativo di conquistare la metà del divano fare una fatica immane per prendersi qualche centimetro in più. E subire le argomentazioni di chi insiste che quello spazio non gli spetta.

È un’oppressione sistemica, che si muove su secoli di storia. Come per il colonialismo. Non è una discriminazione agita ad hoc, ma un meccanismo pervasivo che ha modellato la storia del nostro modo di fare le cose, i criteri con cui far crescere le persone e così via.

Perché facciamo fatica ad ammettere il nostro privilegio

Su quel divano, la persona più lunga non si sente colpevole o responsabile di occupare meno spazio. Perché è convinta che quello spazio gli spetti di diritto.

È la sensazione che proviamo tutte le volte in cui una categoria marginalizzata cerca di occupare più spazio. Si chiama negazione del privilegio e definisce la tendenza da parte dei gruppi dominanti alla de-responsabilizzazione verso l’oppressione dei gruppi marginalizzati.

Le persone privilegiate percepiscono erroneamente di essersi “guadagnate” i benefici, lo status o il rango. Si adoperano inconsapevolmente per mantenere la loro convinzione di essere superiori, più fortunati e più talentuosi di chi è oppresso. Per questo fanno affidamento sulla negazione o su altre reazioni difensive per mantenere questo fragile senso di superiorità e per combattere la dissonanza e la confusione che accompagna il riconoscimento e la comprensione del loro privilegio. La convinzione di essere superiori e quindi di meritare diritti speciali o potere e di non meritare sanzioni ostacola le loro emozioni e le loro capacità intellettuali.

Le persone privilegiate vivono in una realtà distorta

Questa distorsione è simile al concetto di negazione nel trattamento delle persone con tossicodipendenza. Lo so, è un parallelismo forte, ma è proprio così. La negazione serve a proteggere la persona dipendente dalle conseguenze dolorose della verità.

Esaminare le conseguenze della verità e rispondere dell’impatto della propria dipendenza, o in questo caso del privilegio, sono esperienze minacciose, dolorose e impegnative che pochi cercano volentieri.

È come dire “ammetto e mi riconosco responsabile per il fatto che mia moglie starà sempre più stretta sul divano per colpa mia e di tutti i gruppi sociali che mi hanno preceduto”. È una fragilità dolorosa. Inconsapevole. Tramandata nel nostro inconscio da generazioni e generazioni.

Cosa possiamo farcene del nostro privilegio?

Io, personalmente, questa domanda me la faccio spesso. Sono una persona con molti privilegi. Sono italiana, cresciuta in una grande città, in salute, eterosessuale. Solo per dirne alcune. Combatto con veemenza le battaglie che mi riguardano più da vicino, perché toccano in modo forte i privilegi che non ho: multiculturalità e genere soprattutto. Ma faccio più fatica ad accorgermi delle discriminazioni sistemiche collegate ai privilegi che ho.

Alla domanda “cosa posso farmene del mio privilegio?” mi piace rispondermi che:

Il privilegio non è una colpa: è innato. Non è lavabile, non è smacchiabile, non è annullabile. Esiste e basta. Bisogna prenderne atto con autenticità.

Il privilegio è una responsabilità. Posso farmene che non combatto solo le battaglie che mi riguardano. Posso imparare a osservarlo, toccarlo, sentirlo, accorgermi che esiste ed è reale. Posso smettere di negarlo. Nel mio privilegio posso essere un’alleata di chi quel privilegio non ce l’ha. Posso agire, tutti i giorni, atti di coraggio e ammettere che il mio privilegio non è un merito.

Nella responsabilità del nostro privilegio possiamo ammettere che c’è un divano più bello e che non ci va di condividerlo, perché non ci va di stare scomodi. Possiamo imparare a stare a volte nella scomodità, e vedere come ci sentiamo. Possiamo scegliere di rimanere seduti li oppure alzarci e spostarci su un altro divano. Lasciare un po’ del nostro privilegio, non abusarne. E fare spazio a qualcun altro.

Possiamo scegliere, consapevolmente, di prenderci una responsabilità.

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A Francesco, che accoglie con amore e curiosità le mie sempre lunghe meta riflessioni sull’inclusione. Anche quando si tratta di rilassarsi davanti a un film sul divano.

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