Per decenni l’essere umano ha timbrato il cartellino e, contemporaneamente, “stimbrato” le emozioni. Il luogo di lavoro non era adibito ai vissuti emotivi. Era lo spazio del pensiero logico e analitico, delle decisioni ragionate e delle strategie ponderate.
Oggi, sappiamo che non possiamo semplicemente far finta che il nostro portato di sensazioni e bisogni non esista. Specialmente, dopo aver fatto i conti con il fatto che l’azienda può trasferirsi nelle mura di casa. Dove le emozioni hanno spazio e modalità per esprimersi.
Anche quest’ultimo punto è però un traguardo recente. Le famiglie sono infatti state per lungo tempo ecosistemi normativi, in cui vigeva la massima “prima il dovere e poi il piacere” e dove l’autorità paterna tendeva a castrare le dimostrazioni di affetto. Come spiega magistralmente lo psicoterapeuta Matteo Lancini, solo recentemente si è passati alla famiglia affettiva, dove i sentimenti e i bisogni dei singoli membri trovano voce ed espressione.
Al di là delle ragioni che stanno dietro a questo cambiamento, è importante fotografarlo, perché ha un impatto forte sul modo in cui le persone stanno in azienda.
Se ieri infatti i luoghi di lavoro non prevedevano le emozioni, era anche perché queste spesso non erano ammesse nemmeno in famiglia.
Gli imprenditori e i manager, quasi per la totalità uomini, erano proprio quei padri che (si) negavano le dimostrazioni d’affetto tra le mura domestiche.
Oggi, la spinta è nella direzione opposta. Consapevoli che i vissuti emotivi sono parte integrante della vita di ciascuno. Eppure, sono tante le resistenze che ancora si trovano nel parlare di emozioni a lavoro. Un aspetto che però non deve sorprendere. Le maggiori riluttanze arrivano infatti specialmente da chi è cresciuto in un epoca in cui i vissuti emotivi non venivano espressi nemmeno a casa. Come chiedere dunque loro di portarle invece a lavoro? Da questo punto di vista, risulta un processo del tutto contro intuitivo.
Se vogliamo far fiorire le emozioni in azienda, dobbiamo cominciare a interrogarci su quanto e come le esprimiamo fuori. Posso promuovere una cultura organizzativa accogliente, sicura da un punto di vista psicologico e rispettosa dell’unicità, ma se ho persone che per motivi legati alla propria storia personale non vogliono o non sono in grado di aprirsi, devo necessariamente fare un passo indietro. Rispettando il limite che viene da loro posto.
Al contrario, c’è chi oggi ha trovato nuovo slancio nel poter portare “tutto se stesso a lavoro”. Persone che si sentono finalmente a proprio agio nel mostrarsi per ciò che sono e nel condividere i propri vissuti. Anche da questo punto di vista, tuttavia, è necessario delimitare un confine.
Sempre più manager, infatti, riportano la difficoltà nel gestire i carichi emotivi che arrivano dalle loro persone. Quando si lasciano fluire le emozioni, queste sono un fiume in piena. È necessario costruire dighe per proteggere e proteggersi e, allo stesso tempo, argini sufficientemente ampi da far sentire le persone accolte e ascoltate. Un equilibrio estremamente complesso da trovare e mantenere ma che, proprio per questo, è più che mai necessario. Diamo spazio alle emozioni, sì. Legittimiamole. Senza però dimenticare che farlo, significa anche contestualizzarle e contenerle. Libertà emotiva non è infatti sinonimo di emozioni in libertà. Abbiamo bisogno di adulti – e leader – consapevoli del proprio mondo interno, in grado di autoregolarsi. Solo così le aziende potranno realmente essere luoghi a misura di benessere psicologico.
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