Le storie di violenza delle donne sono all’ordine del giorno. Indignano, sollevano interrogativi, provocano dolore, poi arrivano le reazioni della società e della politica sull’onda dell’emergenza, ma restano ancora da affrontare problematiche dal punto di vista strutturale. E questo può accadere solo attraverso più risorse da destinare ai centri anti violenza, strutture cardine nella lotta al fenomeno, e, soprattutto, attraverso più risorse per la prevenzione, soprattutto nelle scuole: un capitolo su cui si fa ancora troppo poco. L’emergenza per la scarsità dei fondi, pur notevolmente aumentati negli anni, non è finita e se si paventano meno chiusure delle strutture, denunciano i centri anti violenza, è perché è subentrata una specie di rassegnazione, unita all’impossibilità di programmare interventi che non siano di breve respiro e al tentativo delle strutture di reperire fondi attraverso canali privati.
Finanziamenti notevolmente cresciuti negli anni fino a 40 milioni di euro
I centri sono importanti perché garantiscono accoglienza e possibilità di consulenza legale, offrono consulenza psicologica e percorsi di orientamento al lavoro. Oltre la metà delle strutture sostiene le donne con una consulenza genitoriale e gruppi di auto-aiuto; i tre quarti sono in grado di offrire consulenza alle donne immigrate non in regola. Guardiamo ai numeri, a pochi giorni dall’attesa presentazione della relazione sui fondi anti violenza del Dipartimento per le parti opportunità al Parlamento. A guardare il bicchiere mezzo pieno, i finanziamenti ai centri, dalla prima legge del 2013 che li istituisce sono man mano aumentati fino ad arrivare dagli iniziali 12 milioni all’ultimo stanziamento da 40 milioni. Nella legge di bilancio per il 2022 c’è stata l’adozione per la prima volta di un piano strategico nazionale sul fenomeno della violenza nei confronti delle donne e sulla violenza domestica e successivamente, la legge di bilancio del 2023 ha alzato i fondi dedicati. Ma le risorse arrivano con un ritardo, pur con un miglioramento rispetto ai precedenti due anni, di 14 mesi medi, rileva Action Aid.
L’ultimo decreto di riparto delle risorse per i centri e le case rifugio è il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri del 22 settembre 2022, che ha provveduto a ripartire le risorse del Fondo per le politiche relative ai diritti e alle pari opportunità per l’annualità 2022. Il dpcm prevede il trasferimento alle Regioni di una somma pari a 40 milioni, di cui 30 milioni per il finanziamento dei Centri antiviolenza e delle Case rifugio e 10 milioni per il finanziamento degli interventi regionali tra i quali le iniziative volte a sostenere la ripartenza economica e sociale delle donne nel loro percorso di fuoruscita dal circuito di violenza, il rafforzamento della rete dei servizi pubblici e privati attraverso interventi di prevenzione, assistenza, sostegno e accompagnamento delle donne vittime di violenza, gli interventi per il sostegno abitativo, il reinserimento lavorativo e più in generale per l’accompagnamento nei percorsi di fuoriuscita dalla violenza. Dopo la registrazione del dpcm da parte della Corte dei conti, le Regioni hanno inviato al Dipartimento la richiesta di trasferimento delle risorse unitamente alla nota di programmazione. All’esito dell’analisi e approvazione delle note, il Dipartimento, a partire da marzo scorso, in anticipo di due mesi rispetto al 2022, ha provveduto a trasferire alle Regioni le risorse. Ma l’iter è lungo, le risorse vanno poi ripartite alle strutture.
Action Aid stima 270 milioni stanziati nel 2013-2021: inadeguati
Dividendo i fondi per le strutture esistenti, le cifre che in totale sembravano importanti vengono notevolmente ridimensionate. Ai centri anti violenza, singolarmente, vanno circa 39 mila euro, a ogni casa rifugio 36mila (dati calcolati da Action Aid sul dpcm che ripartisce i fondi per il 2022). Dal 2013 al 2021, stima ancora Action Aid, sono arrivati 270 milioni di euro; il numero esatto sarà fornito a novembre prossimo. Spiega Isabella Orfano, esperta del programma Diritti delle Donne: “Dei 270 milioni, 153 sono stati utilizzati per finanziare i centri antiviolenza e le case rifugio, i rimanenti per le attività previste dai piani antiviolenza. Si tratta di fondi insufficienti che non si basano su una analisi dettagliata dei bisogni a livello territoriale e nazionale. Di certo, sebbene siano aumentate nel corso degli anni, si tratta di risorse ancora ampiamente inadeguate”. Troppo pochi per pagare gli stipendi alle operatrici, per la maggioranza volontarie, a volte troppo pochi anche per la sopravvivenza dello stesso centro.
Le modalità di ripartizione e la mappatura: ancora nodi da sciogliere
Tuttavia, differentemente da quanto avvenuto negli anni scorsi, oggi non c’è tanto clamore mediatico sul rischio di chiusura di alcuni centri, ma questo non vuol dire che il problema venga meno sentito. Tra i nodi da sciogliere c’è quello della modalità di suddivisione dei finanziamenti: “I soldi – spiega Mariangela Zanni, consigliera di D.i.Re – Donne in rete contro la violenza – vengono ripartiti alle Regioni, sulla base del calcolo della popolazione, in base al numero dei centri e delle case rifugio. Poi la Regione, attraverso attività di programmazione li distribuisce per progetti vari. Un’altra criticità consiste nel fatto che Regioni hanno autonomia nel decidere come utilizzare questi fondi. Alcune distribuiscono ai comuni, altri direttamente alle strutture, altri fanno dei bandi per accedere ai fondi”.
Non solo i finanziamenti sono pochi, frammentati, discontinui ed in perenne ritardo, ma su di essi, aggiunge Lella Palladino della Cooperativa E.V.A. “grava anche un meccanismo di distribuzione da parte delle Regioni contrassegnato da profonde differenze. Alcune, le più virtuose, distribuiscono i finanziamenti direttamente ai centri antiviolenza accreditati. Altre invece – ed è notoriamente il caso della Campania, ma non solo – scelgono di trasferirli agli ambiti socio-sanitari, con il risultato che poi bisogna attendere e sperare che il Comune capofila degli ambiti ripartisca a sua volta queste risorse ai centri antiviolenza. È evidente che si tratta di una procedura in cui si accumulano ritardi e disparità, rendendo difficile per molti centri la stabilizzazione delle operatrici e la valorizzazione del loro lavoro altamente specializzato. Pertanto, pur richiamando fortemente le responsabilità pubbliche sul tema della violenza maschile contro le donne, molti centri stanno lavorando per reperire risorse da altre fonti per garantire la loro sopravvivenza e anche la loro indipendenza”.
La mappatura dei centri utile ma ancora problemi di distribuzione dei fondi
In questo contesto variegato, la mappatura dei centri era uno strumento atteso per mettere ordine e monitorare quali strutture avessero realmente i requisiti. In particolare, il Dipartimento, in collaborazione con Differenza Donna (attuale gestore del numero di pubblica utilità 1522), con i referenti regionali e con Istat, ha realizzato un lavoro di ricognizione volto ad aggiornare le informazioni sui Centri antiviolenza e sulle Case rifugio presenti sull’intero territorio nazionale. La mappatura è stata pubblicata Il 10 marzo scorso sul sito istituzionale del Dipartimento e sul sito del “1522”. Le informazioni (aggiornate contestualmente a quelle dei Cav) sulle Case rifugio, invece, in quanto strutture a indirizzo riservato o segreto, non possono invece essere rese pubbliche. Sono stati anche aggiornati i nominativi e i contatti dei referenti regionali, disponibili al link www.1522.eu/referenti-regionali.
È stata inoltre definita la procedura da seguire per l’inserimento nella mappatura 1522 dei Centri antiviolenza e delle Case rifugio: i centri e le case in possesso dei requisiti minimi previsti dall’Intesa del 14 settembre 2022 sono tenuti ad inviare la richiesta di accreditamento esclusivamente alla Regione di riferimento. La richiesta, una volta accolta dalla Regione, sarà successivamente trasmessa al Dipartimento per le pari opportunità, che provvederà ad inoltrarla al 1522 per l’inserimento nella mappatura. Alla data del 16 maggio scorso, la mappatura registrava 384 Centri antiviolenza e 399 Case rifugio. Nonostante tutto ciò i centri sono ancora critici. ““Dopo la mappatura del 1522, in realtà la distribuzione – commenta Zanni – non è migliorata. Le Regioni hanno autonomia decisionale nel far accedere un centro alla mappatura oppure no. Ancora oggi beneficiano dei fondi strutture che non hanno tutti i requisiti necessari mentre altri centri non ricevono i fondi, ma continuano ad accogliere le donne. La mappatura da una parte è stata utile, e ha dato visione più chiara a livello nazionale, dall’altra non ha dipanato tutte le criticità”.
“Il problema – rincara Rossella Silvestre, Policy & advocacy expert di ActionAid – non è tanto legato alla mappatura o meno dei centri, visto che c’è l’intesa del 2014, aggiornata di recente, che definisce quali siano i requisiti per accedere ai finanziamenti; il problema riguarda la gestione, i procedimenti burocratici. I fondi, stanziati in legge di bilancio a dicembre dell’anno precedente, vanno poi ripartiti tra le regioni attraverso un decreto firmato dalla ministra per la Pari opportunità che dovrebbe uscire nel primo semestre, ma arriva in genere a novembre, ben 11 mesi dopo lo stanziamento dei fondi, portando un ritardo in tutta la filiera”.
I centri sono ancora a rischio, c’è una specie di rassegnazione
In ultima analisi, dalla fotografia della situazione dei centri anti violenza, l’emergenza non appare conclusa; in alcune zone i fondi hanno aiutato, sono stati aperti nuovi centri, in altre la situazione non ha avuto miglioramenti. “Forse – commenta Zanni – c’è una sorta di rassegnazione, il rischio chiusura era un messaggio forte che veniva mandato negli anni scorsi per richiamare la responsabilità del governo a intervenire. Solo un paio di anni fa un centro anti violenza di Catania rischiava di chiudere per un debito enorme che poi, un po’ alla volta, è stato rientrato. Lo stesso è successo a Terni e Perugia. La continua precarietà mette a rischio l’esistenza dei centri. Abbiamo centri che ci dicono che fanno fatica, la maggior parte non ha personale strutturato perché si rischia di non poter garantire lo stipendio. Anche in Lombardia alcuni centri sono stati chiusi perché non arrivavano più i fondi, magari centri non storici, più recenti, che non erano stati più finanziati. Per fare un esempio del mio centro, noi avevamo aperto una struttura in un comune limitrofo a Padova, per un anno è stata finanziata, l’anno dopo non lo è stata, ma lo è stata due anni dopo. In assenza di fondi abbiamo praticamente lavorato volontariamente, non abbiamo fatto nessun tipo di denuncia pubblica, è una fatica che porta via tempo”.
D.i.Re: “Nelle scuole non si fa ancora abbastanza, difficile parlare negli istituti”
Attenzione particolare andrebbe, infine, dedicata alla formazione e prevenzione, le sole armi che abbiamo per combattere il fenomeno della violenza alle radici. “Alla prevenzione- ricorda Zanni – è dedicato il 14% di tutti i fondi, ma i bandi vengono vinti da pochissimi centri anti violenza e i percorsi nelle scuole non vengono adeguatamente finanziati. Anche i privati mirano a finanziare il supporto diretto alle donne e non la, pur necessaria, formazione e prevenzione. Tutto ciò perché c’è diffidenza, si intersecano temi del genere, parte legata a teoria gender e si fa grande difficoltà a entrare. In più la violenza sulle donne non è considerata ancora prioritaria dagli istituti anche se inserita nelle linee guida del ministero dell’Istruzione e della ricerca. Quando andiamo nelle scuole, anche nelle università, vediamo che c’è bisogno di confronto dalla quantità di stereotipi e luoghi comuni che emergono”.
Occorre investire, conclude Isabella Orfano, “in maniera massiccia e continuativa sulla prevenzione primaria per fare in modo che non ci siano più casi di violenza. Il vero cambiamento, infatti, può avvenire solo se si decide di investire seriamente in politiche innovative capaci di sradicare le discriminazioni e le disuguaglianze di genere che alimentano le norme sociali e i comportamenti individuali che producono e riproducono la violenza maschile contro le donne sia nella sfera pubblica che privata. Solo così, in un periodo medio-lungo, si vedrà un reale cambiamento, altrimenti l’Italia continuerà a dare una risposta emergenziale che non risolve un problema strutturale molto serio del nostro Paese”. E si continuerà a contare un femminicidio ogni tre giorni.
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