Giugno è il mese del Pride, ovvero il mese dedicato a celebrare l’orgoglio di tutte le persone che appartengono alla comunità lgbtqia+, ma anche a sensibilizzare società e istituzioni a dedicare attenzione alle discriminazioni che ancora oggi queste persone subiscono nel mondo.
Mesi prima, i calendari di marketing delle aziende cominciano a notificare di lavorare alle campagne pride: loghi e slogan ribrandizzati con arcobaleni colorati, jingle e giochi di parole che strizzano l’occhio all’immaginario queer, dipartimenti finanziari che stimano la quantità di profitto che le campagne dovrebbero generare.
Il caso Target
Nei giorni scorsi una polemica sollevata dal conservatorismo sempre più diffuso negli Stati Uniti, ha portato Target, l’ottava catena di supermercati Usa, a ritirare una linea di prodotti dedicati al pride. Da circa dieci anni questi magazzini coinvolgono diversi designer nella realizzazione di prodotti esposti in stand arcobaleno; quest’anno l’iniziativa è stata attaccata a partire dai social media, da parte di attivisti di destra, religiosi e parlamentari repubblicani, che hanno anche invocato un boicottaggio di massa. Le azioni Target hanno perso a Wall Street il 20% nel giro di pochi giorni. Da qui la drastica decisione di far sparire i prodotti.
La shit storm ha coinvolto in particolare il designer Erik Carnell, che ha ricevuto messaggi di odio e minacce di morte, e con amarezza verso la decisione di Target ha dichiarato: “È un precedente molto pericoloso, far credere che se le persone si arrabbiano abbastanza per i prodotti che stai vendendo, puoi prendere le distanze completamente dalla comunità lgbtq+, quando e se è conveniente. Se hai intenzione di prendere posizione per la comunità, devi mantenerla a prescindere“.
Brand activism e Rainbow washing
Se è vero da un lato che inserire il pride nelle strategie aziendali offre alle aziende stesse l’opportunità di chiarire i propri valori, mostrare sostegno ai dipendenti lgbtqia+ e, nel migliore dei casi, utilizzare la propria risonanza per chiedere un cambiamento sociale, tuttavia certe pratiche senza un supporto attivo delle identità o dei diritti delle persone lgbtqia+ possono subire l’accusa, motivata, di essere mero rainbow washing. Ovvero, l’uso in malafede delle tematiche legate al pride, finalizzate a un ritorno di fatturato e nient’altro.
Le organizzazioni si danno così un’aria ingannevole di liberalismo, che può finire persino con l’avere un impatto negativo sulla comunità lgbtqia+, come ha dimostrato il caso Target. Per altro Millennials e Gen Z sono generazioni che più delle precedenti tendono a trasporre nelle scelte di consumo il proprio impianto valoriale. Di conseguenza un rainbow washing smascherato può avere alla fine un impatto negativo sull’azienda stessa. Con un uso strumentale e superficiale del pride, in pratica, ci perdono tutti.
“Negli ultimi anni è aumentata la pratica da parte delle aziende di utilizzare simboli della comunità Lgbtqia+ o di istituire iniziative relative al pride month al solo fine di posizionarsi rispetto a un determinato pubblico” spiega ad Alley Oop Isabella Borrelli, attivista, esperta in linguaggio e consulente di strategia e diversity, e continua: “Se questa pratica non è supportata da una visione più ampia, da valori aziendali che guidino la politica dell’azienda stessa, se manca la diversity nei vertici aziendali, allora è rainbow washing“.
E che cosa distingue il rainbow washing da un genuino impegno da parte di aziende e organizzazioni nei confronti della comunità del pride?
“Fino a qualche anno fa un’azienda era considerata coraggiosa solo per l’esposizione di una bandiera arcobaleno. Oggi mi aspetterei un approccio più critico: l’impegno di un’azienda deve essere rivolto verso l’interno, verso se stessa, e non verso l’esterno” prosegue Borrelli, che aggiunge: “È una differenza sostanziale. Non mi interessa tanto cosa l’azienda vuole comunicare a me, ma cosa l’azienda fa per e con i suoi dipendenti, fornitori, clienti. Non si tratta di vendere un prodotto brandizzato con l’arcobaleno, ma ad esempio di esporsi nel dibattito pubblico quando è necessario, oppure superare il legislatore nazionale applicando politiche interne di welfare aziendale, copertura sanitaria, misure a sostegno delle coppie non solo eterosessuali, protocolli e procedure per l’affermazione di genere“.
Perchè non basta un arcobaleno sul brand
Ilga Europe (associazione internazionale per i diritti lgbtqia+), nella sua classifica posiziona l’Italia al 34esimo posto su 49 nella classifica dei Paesi Europei, nel valutare le politiche a tutela dei diritti umani e dell’uguaglianza delle persone lgbtqia+.
I dati Istat e Unar sulle discriminazioni lavorative raccontano che il 41,4% delle persone intervistate, occupate o ex-occupate, dichiara che essere omosessuale o bisessuale ha rappresentato uno svantaggio nel corso della propria vita lavorativa in almeno uno dei tre ambiti considerati: carriera e crescita professionale, riconoscimento e apprezzamento, reddito e retribuzione.
Il 61,2% delle persone occupate o ex-occupate riferisce, in relazione all’attuale/ultimo lavoro svolto, di aver evitato di parlare della vita privata per tenere nascosto il proprio orientamento sessuale; per la stessa ragione circa una persona su tre ha evitato di frequentare persone dell’ambiente lavorativo nel tempo libero. Il 74,5% delle persone omosessuali o bisessuali intervistate ha evitato di tenersi per mano in pubblico con il partner dello stesso sesso per paura di essere aggredito, minacciato o molestato.
Questione di brand activism
In un momento di forti pressioni sociali, in cui anche istituzione come la Regione Lazio e la Regione Lombardia prendono posizione nel revocare il proprio patrocinio al pride, il sostegno alla comunità lgbtqia+ non può essere preso alla leggera o gestito con superficialità. Laddove mancano specifiche misure e tutele contro la discriminazione, l’odio e la violenza, le aziende e le organizzazioni possono essere attori fondamentali nel promuovere il cambiamento, sia attraverso azioni concrete di sostegno, sia nel creare cultura.
Ma questo può avvenire solo mettendo in campo strategie per un vero brand activism, fuori dalla retorica e dalle campagne marketing. Ci sono, sono tante e si dispiegano a più livelli. In comune hanno il fatto che prima che allo sbandieramento verso l’esterno devono essere interiorizzate e strutturate all’interno delle dinamiche aziendali.
“È necessario mettere in piedi innanzitutto processi di comunicazione interna. Lavorare col team manageriale per agire con il brand purpose dell’organizzazione, con i valori aziendali, compiere un percorso di alfabetizzazione interna parlando soprattutto con i dipendenti sui temi di diversity, a ogni ordine e grado. Pensando poi a un processo partecipato, si possono rivedere le policy interne in modo strutturato, in ottica di tutela dei diritti lgbtqia+. Questi sono i primi step. Parlare meno al pubblico, ma in maniera più sincera al proprio interno” chiosa Borrelli.
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