In Italia una donna viene uccisa ogni tre giorni (dati Eures). In Afghanistan, come in Iran, 60 ragazze sono state avvelenate nella scuola Naswan-e-Kabod Aab e altre 17 nella scuola Naswan-e-Faizabad, nel distretto di Sangcharak. In Libano, sulla spiaggia di Sidone, lo scorso 14 maggio due sceicchi e i loro sostenitori si sono scagliati contro gruppi di bagnanti definendo indecente l’abbigliamento delle donne che indossavano bikini.
In un mondo ancora ostile alle donne c’entrano i corpi. La rabbia. Le oppressioni che attraversano le loro esistenze e i “peccati” bollati come tali da un patriarcato che chiede di accettare, e non demolire, i suoi dettami. Se il sistema patriarcale è complesso, pervasivo e internazionale, il femminismo può essere universale. È questo il percorso che Mona Eltahawy traccia nel suo ultimo libro “Sette peccati necessari. Manifesto contro il patriarcato”, edito da Le plurali. Un viaggio nel mondo – dal Sudafrica alla Cina, dalla Nigeria all’Arabia Saudita, dalla Bosnia agli Stati Uniti – che scava nelle omertà e nei silenzi e fornisce parole nuove per nominare spazi inediti di libertà e consapevolezze.
Attivista ed editorialista di New York Times, Guardian e Washington Post, le identità di Mona Eltahawy sono diverse e attraversano le geografie: femminista, queer, egiziana, dal 2011 anche cittadina degli Stati Uniti. Durante le rivolte di piazza Tahrir, al Cairo, viene imprigionata e abusata sessualmente. Nel 2018, con l’hashtag #MosqueMeToo, denuncia gli abusi subiti a 15 anni durante il suo pellegrinaggio religioso in Arabia Saudita, diventando leader di un vero e proprio movimento. Alla sua denuncia se ne sono aggiunte molte altre di ragazze musulmane abusate negli spazi religiosi. Oggi quali sono le forme di attivismo in grado di raccogliere le voci e dargli spazio? Eltahawy risponde con un vocabolario di lotta contro il patriarcato che – come sottolinea nella prefazione la scrittrice Igiaba Scego – “crea un nuovo linguaggio dove i corpi, qualsiasi sia la propria concezione di sé come genere, appartenenza o geografia, costruiscono una rivoluzione personale che è pronta a diventare universale”.
Ribaltare il tavolo del patriarcato
Non sedersi allo stesso tavolo del patriarcato, ma ribaltarlo: le parole di Eltahawy, in tour in Italia fino al 26 maggio, si siedono accanto alle voci che le accolgono e le fortificano. “Il patriarcato è come una piovra – racconta la scrittrice ad Alley Oop –: la testa è il patriarcato e ciascuno degli otto tentacoli rappresenta una forma di oppressione che lo mantiene: misoginia, supremazia bianca/razzismo, classismo/capitalismo, omofobia/transfobia, ageismo, abilismo. A seconda di dove vivi e di chi sei, il patriarcato userà due, forse tre o quattro tentacoli per stringerti. Nessuno di noi è libero e libera finché tutti e tutte noi non siamo fuori da tutti i tentacoli. Ecco perché voglio distruggere il patriarcato, e non solo alcuni dei suoi tentacoli, ma l’intera piovra”.
Per farlo, indica Eltahawy, è necessario partire dalla decostruzione del proprio privilegio. Metterlo a disposizione per fare spazio: “Quando ho creato #MosqueMeToo, sapevo che le persone avrebbero ascoltato, perché ho un grande seguito su una piattaforma globale e quindi l’ho usato. Ognuno di noi attraversa la vita con qualche forma di privilegio. Più privilegi hai, più sei obbligato a combattere contro gli ostacoli che trattengono gli altri: devi usare il tuo privilegio per amplificare la voce di chi è meno privilegiato o più emarginato, alzare la tua voce contro tabù e altre forme di silenzio e parlare più forte, sapendo che puoi permetterti un rischio maggiore perché il tuo privilegio ti protegge più di chi non li ha”.
Una messa in discussione che riguarda anche e soprattutto gli uomini. “Il patriarcato socializza gli uomini a credere di avere diritto sui nostri corpi e li protegge quando ci aggrediscono anche in luoghi in cui dovremmo sentirci al sicuro”, specifica l’autrice, che continua: “Quello che è successo a me a La Mecca è uguale a quello che è successo ai bambini che sono stati aggrediti sessualmente dai preti. Trovo che sia più importante analizzare ciò che mi è successo piuttosto che collocare le oppressioni in una gerarchia di ciò che è meglio o peggio dell’altra. La piovra che è il patriarcato usa tutti e otto i tentacoli contemporaneamente”.
Nei tentacoli descritti da Mona Eltahawy ci finiscono anche i diritti che sembravano acquisiti e sono invece messi in discussione: “Per me è importante che le donne in ogni Paese riconoscano le oppressioni che devono combattere. Il mio primo libro – “Headscarves and Hymens: Why the Middle East Needs a Sexual Revolution” (“Perché ci odiano”, Einaudi) – si focalizza sul patriarcato in Medio Oriente e Nord Africa. Il mio secondo libro si concentra sul patriarcato in tutto il mondo, compresi gli Stati Uniti. Durante la tournée italiana ho ricordato al pubblico di concentrarsi con più urgenza sul riconoscimento delle oppressioni: con la vostra prima ministra sono molto preoccupata per le donne e le comunità queer”. Guardare oltre il perimetro della propria esistenza perché, dice l’editorialista, “non mi interessano le donne eccezionali che sono sopravvissute alla piovra. Mi interessa distruggere la piovra che soffoca tante altre donne”.
Liberarsi dalle oppressioni, “i sette peccati necessari”
Per creare sé stesse in un mondo che ancora non lo contempla, il peccato è necessario. Sono sette quelli indicati da Eltahawy: rabbia, attenzione, volgarità, ambizione, potere, violenza, lussuria. “Li chiamo peccati perché è ancora considerato un rischio esibirli – afferma la scrittrice – questo ci ricorda che la nostra guerra contro il patriarcato deve continuare”.
Nel capitolo dedicato alla rabbia, Eltahawy apre la riflessione con un interrogativo: “Come sarebbe il mondo se alle bambine venisse insegnato che sono dei vulcani, le cui eruzioni sono qualcosa di bello, una potenza da stare a guardare e una forza con cui non scherzare? Se alimentassimo e incoraggiassimo in loro l’espressione della rabbia allo stesso modo in cui incoraggiamo la capacità di lettura: come qualcosa di necessario per navigare il mondo?”.
La violenza, allo stesso modo, nell’analisi di Eltahawy diventa un “peccato” capace di cambiare il punto di vista e aprire una riflessione più profonda. In uno scenario ipotetico e volutamente disturbante, la scrittrice si chiede: “Immaginate se dichiarassimo guerra. Come si sentirebbero gli uomini nel vedere così tanti loro compagni uccisi solamente per essere, come loro, degli uomini?” . Non basta una presa di coscienza individuale – ovvero il “not all men” per cui “non tutti gli uomini uccidono le donne” – ma collettiva, perché “la violenza sulle donne è considerata accettabile nel momento in cui porta avanti la causa del patriarcato”.
Interrogando lo scenario attuale e mettendolo in discussione, i sette peccati del “Manifesto contro il patriarcato” si propongono come strumenti capaci di costruire e non demolire. In questo ribaltamento di prospettiva, tutto il senso di una battaglia che apre a un mondo nuovo. “Non ci lasceremo bruciare, perché questa volta il fuoco è nostro”: è così che Mona Eltahawy chiude ogni suo discorso pubblico. Ed è così che nuove consapevolezze si instillano nelle generazioni di donne che si incontrano: il fuoco è “nostro”. Né solo mio. Né solo tuo.
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