Comunità per minori, in Italia dati disomogenei e criticità sui fondi

Disomogeneità a livello territoriale, mancanza di una banca dati nazionale, assenza di un monitoraggio ex post: sono le maggiori criticità rilevate dagli operatori del settore sulle comunità per minorenni in Italia. Strutture che ospitano bambini e i ragazzi allontanati dalle famiglie: oltre 23mila al 31 dicembre 2020 secondo l’Autorità Garante per l’infanzia e l’Adolescenza. Nel  2017 il Ministero del lavoro e delle politiche sociali ha emanato una serie di linee guida nazionali – le linee di indirizzo per l’accoglienza nei servizi residenziali per minorenni –  su cui al momento è operativo un gruppo di lavoro, ma la competenza è delle regioni. “Il testo stilato dal ministero del Lavoro, che definisce caratteristiche e processi delle comunità, non è cogente quindi se le regioni non lo ratificano resta solo un bel documento”, spiega Liviana Marellireferente per infanzia, adolescenza e famiglie del CNCA – Coordinamento nazionale comunità di accoglienza. Altra criticità riguarda i fondi: le rette sono pagate dai comuni, con differenze enormi tra territori e strutture. L’Associazione CAF, ad esempio, dal comune di Milano riceve 80 euro al giorno a bambino, ma la spesa reale è di oltre 140 euro: il resto arriva dalla raccolta fondi, che permette ai ragazzi di avere un supporto adeguato e di fare sport, vacanze, gite in una regione – la Lombardia – in cui sono circa 3000 i ragazzi ospiti in oltre 800 strutture e la retta media per le comunità terapeutiche è di circa 90 euro.

Le comunità in Italia. Nel nostro paese la responsabilità socio educativa spetta alle regioni, in seguito alla riforma del Titolo V della Costituzione. “A livello nazionale non esiste neanche una definizione omogenea delle tipologie di comunità”, spiega Marelli. Ciò significa che ogni regione tramite le delibere regionali (Dgr) definisce le tipologie di struttura, come devono essere organizzate, i requisiti e gli standard strutturali e gestionali. Anni fa era stato creato il SINBA, il Sistema informativo nazionale sui bambini e gli adolescenti, un data base che deve ancora essere implementato. Per questo motivo, “i dati sono parziali, incompleti e disomogenei ma soprattutto manca un follow up del ragazzo una volta uscito dalla comunità”, continua la referente Cnca, che fa parte del gruppo di lavoro creato al Ministero. La stessa Autorità Garante per l’infanzia e l’adolescenza, nella raccolta pubblicata a settembre, ha sottolineato che da tempo vi è l’esigenza dell’istituzione di una banca dati nazionale relativa alle persone di minore età che vivono fuori dalla famiglia d’origine”.

I numeri mancanti. In Italia – come in tanti altri ambiti – sulle comunità per minori non esiste una banca dati nazionale. L’ultima rilevazione del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, in base ai dati in possesso di Regioni e Province autonome, risale al 2019. Al 31 dicembre erano 14 mila i bambini e ragazzi di 0-17 anni accolti nei servizi residenziali per minorenni, al netto dei minori stranieri non accompagnati (pari a circa 7mila), in crescita costante dal 2015. Di questi, 3500 erano accolti con genitori. I dati del ministero sono sostanzialmente in linea a quelli raccolti dall’Autorità Garante per l’infanzia e l’adolescenza nella raccolta elaborata con le procure della Repubblica presso i tribunali per i minorenni (27 su 29). L’indagine mostra numeri in salita rispetto al 2019 e 2018: a fine 2020 erano 23.122 i bambini e i ragazzi ospiti delle 3.605 comunità per minorenni attive in Italia (comprese quelle terapeutiche), 15mila al netto degli stranieri non accompagnati. Duemila hanno tra i 18 e i 21 anni.  In media si tratta di poco più di 6 ospiti per struttura. In merito ai requisiti, le comunità sono soggette a controlli e ispezioni, più o meno frequenti a seconda delle regioni e dei territori. “Ci sono tre livelli di vigilanza e controllo: da parte dell’organo di vigilanza regionale che compie le visite ispettive; della procura per i minorenni; del servizio sociale dell’ente locale che ha il dovere di costruire il progetto quadro”, sottolinea Marelli.

I costi: la voce più rilevante le spese per gli educatori. Le rette per le comunità – che ospitano da 6 a 10 minori al massimo – variano da regione a regione, da comune a comune e da struttura a struttura. Per ogni minore ospitato, le comunità percepiscono in media tra i 60 euro e gli oltre 100 euro al giorno. In Lombardia, secondo i dati forniti dalla stessa regione, le strutture residenziali sono circa 800 e la retta media giornaliera è di 96 euro per la comunità educativa, 87 euro per quella familiare, 57 euro per gli alloggi per l’autonomia. L’Associazione CAF – Centro aiuto minori e famiglie dal comune di Milano riceve 83 euro al giorno a bambino per la comunità per minorenni (30 ospiti in tutto), in crescita rispetto ai 76 euro del 2021, ma la spesa reale media a bambino è di 143 euro al giorno: il 60% arriva dalla raccolta fondi. La spesa annua è di 1,5 milioni di euro, pari a 4300 euro al mese a minore. In merito alla ripartizione, oltre il 70% è rappresentato dai costi del personale educativo, professionisti specializzati che lavorano 24 ore su 24, 365 giorni l’anno; il 16% da costi per la struttura (utenze, manutenzione, assicurazioni, ecc); il 7% da costi diretti di comunità (vestiti, cibo, igiene, farmacia, scuola, mensa, tempo libero); il 5% da costi del servizio psicologico.

Viaggio al Caf di Milano. L’Associazione CAF – Centro aiuto minori e famiglie, attiva sul territorio milanese dal 1979, gestisce 4 strutture: la comunità per minorenni 3.-12 anni; la comunità 12 – 18; il centro educativo diurno; l’alloggio di semi autonomia. La nostra visita si è focalizzata sulla comunità per minorenni, divisa a sua volta in tre appartamenti con 10 bambini e 7 educatori ciascuno, per un totale di 30 bambini e 21 educatori. Qui i ragazzi arrivano dopo la segnalazione dei servizi sociali e un decreto del Tribunale per i minorenni, che stabilisce l’allontanamento dalla famiglia d’origine. Tra i motivi principali: maltrattamenti fisici e psicologici, grave conflitto familiare e violenza assistita, presunti abusi sessuali, grave trascuratezza e incuria, spiega Paola Gobbi, pedagogista referente della Comunità per minorenni.

Quando arrivano, i bambini sono spaventati, piangono se sentono una sirena, una porta sbattere, un tono di voce più alto. Cerchiamo di metterli a proprio agio, presentiamo loro gli spazi, le camerette, gli altri bimbi. Spieghiamo loro cos’è la comunità, cerchiamo di rassicurali. Il primo giorno è sempre il più difficile e hanno un educatore dedicato”, continua Gobbi. Sulle porte di ingresso dei tre appartamenti sono scritti i nomi: Folletti, Gnomi ed Elfi, i più piccoli. Le stanze sono coloratissime, con disegni alle pareti, libri, pupazzi. Le camerette dei bimbi sono azzurre, con macchinine e dinosauri dappertutto. Quelle delle bambine rosa, con unicorni e bambole. Alle pareti ci sono i tabelloni con le date dei compleanni, i cibi preferiti e le attività. Tutto è costruito per loro, per farli stare bene, ma la sofferenza è molta.

Le giornate si svolgono sostanzialmente come quelli dei loro coetanei. La mattina c’è la corsa per prepararsi e andare scuola, accompagnati da educatori ed educatrici, che partecipano a riunioni e colloqui: solitamente i bambini e i ragazzi frequentano le strutture intorno al CAF, nella periferia milanese. Terminate le lezioni, i bimbi e le bimbe rientrano in comunità, dove possono invitare amici e compagni. Fanno merenda, i compiti, poi le varie attività: calcio, danza, nuoto, equitazione, ognuno può scegliere lo sport che preferisce. Nel week end ci sono le gite, d’estate le vacanze al mare, di inverno in montagna: attività possibili soprattutto grazie alla raccolta fondi.

Fondamentale il percorso terapeutico. Al CAF ci sono psicologhe che si occupano della rielaborazione dei traumi vissuti. “A volte i ragazzi sono felici di fare terapia, un’ora di rapporto esclusivo con un educatore per questi bambini è una rarità”, racconta Laura Calabresi, psicoterapeuta, responsabile clinica e consigliera delegata dell’associazione CAF. “Cerchiamo di spiegare loro che il luogo sicuro non è solo quel posto dove non c’è la violenza, ma anche dove il bambino sa che può mangiare tre volte al giorno, trovare il fresco quando ha caldo e il caldo quando ha freddo”, racconta la responsabile CAF. Fondamentale per i bambini è la ripetitività delle regole, capire che si possono fidare dell’adulto perché mantiene la parola data. Poi c’è l’altro obiettivo: ricostruire e condividere la propria storia.  I bambini tra loro raccontano le esperienze vissute, ovviamente non tutti, qualcuno non riesce. “Il lavoro con questi bambini è meraviglioso,  col trascorrere del tempo vediamo cambiamenti pazzeschi: da ragazzini in allerta e spaventati diventano meno tesi e più sereni, capaci di esprimere le loro emozioni, molto competenti dal punta di vita relazionale”, precisa Calabresi.

Ma il pensiero è sempre là, alle loro famiglie, con cui avvengono incontri periodici, alcuni direttamente all’interno del CAF, altri nello spazio neutro, dove i minori sono accompagnati dagli educatori. I bimbi chiedono continuamente della mamma e del papà – raccontano gli educatori –  la mancanza della famiglia è sempre presente, ci sono momenti di grossa fatica, soprattutto dopo gli incontri protetti, che spesso avvengono una volta al mese. Le visite sono momenti speciali, ma questi genitori ci sono sempre. C’è una mamma nascosta che ha una potenza simbolica ed emotiva enorme e noi trattiamo questo rapporto con grande rispetto. In nessun modo devono sentire un giudizio da parte nostra sulla loro mamma e sul loro papà. Nella mente del bimbo i genitori ci sono sempre, noi non dobbiamo sostituirci a loro, non è il nostro compito. Dobbiamo aiutarli a riconoscere quello che è successo e le responsabilità che ci sono state. I bimbi devono capire che non hanno alcuna colpa”.

Il tempo medio di permanenza in comunità è di 2 anni, un anno per i più piccoli che vanno facilmente in affido, mentre per i 10-11enni la situazione è più complessa. Chi resta in comunità viene indirizzato alle strutture per adolescenti e dopo i 18 anni fino ai 21 agli alloggi di semi autonomia.  Anche i professionisti del CAF sottolineano però come non siano disponibili dati sui giovani una volta usciti dalla comunità. A volte i più grandi quando escono restano in contatto, perché, anche se faticoso, vivere sempre insieme per loro è fondamentale.  Così, spesso, alla sofferenza di stare in comunità senza la propria famiglia, si aggiunge quella del distacco con i compagni, la fatica di lasciare un fratello o una sorella, per chi va via e per chi resta.

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