Stai bene nella perfezione o nelle sbavature?

All’occhio umano piace la simmetria, l’ordine, l’armonia. Ciò che è perfetto è forse statico, ma è prevedibile e rassicurante. Sarà per questo che si insegue un ideale di perfezione. In fondo, ci siamo evoluti in contesti nei quali una sbavatura, qualcosa fuori posto, una differenza nella vegetazione, poteva far presagire un predatore all’orizzonte. Non stupisce, dunque, che ricerchiamo ciò che si presenta come impeccabile.

Oggi, la perfezione è quella dei corpi, dell’estetica, della performance. Il diverso, ciò che stona, affascina, ma disturba. L’errore è contemplato se votato a un risultato migliore, non certo se è fine a se stesso. E così ci muoviamo in una realtà in cui si inseguono standard, ideali, perfezioni. Con il rischio di compromettere un benessere psicologico che si fonda sì, su un equilibrio, ma che, in quanto tale, è per sua natura in costante aggiustamento. Come un funambolo, che è in grado di camminare su una corda solo se assesta costantemente il suo baricentro.

In psicologia, si distinguono due tipi di perfezionismo: quello disadattativo e quello positivo. Il primo è tipico di chi rincorre standard eccessivamente elevati. Persone che si scontrano con il costante dubbio di ciò che fanno. Preoccupazioni, timore di sbagliare, bassa tolleranza all’incertezza. Tendenza ad adottare modelli di azioni socialmente desiderabili, che non trovano però riscontro in ciò che si auspica realmente. Poco spazio per l’auto-determinazione e per ciò a cui si ambisce davvero, in favore di ciò che si deve fare o si pensa di volere. Un loop nel quale manca una vera e autentica realizzazione, nel quale non si è in grado di compiacersi di ciò che si raggiunge, perennemente impegnati a volere di più. Un’insoddisfazione cronica che alimenti stati di ansia e paura rispetto al fallimento e al giudizio altrui.

Dall’altra parte, un perfezionismo invece positivo. Un porsi sì, standard elevati, ma autenticamente desiderati. Traguardi che richiamano impegno e dedizione, ma anche l’abilità di adattarsi, di riscrivere i proprio obiettivi, di rendersi conto che sì, gli esiti si possono influenzare, ma solo fino a un certo punto. Solamente finché si è in controllo della situazione, fintanto che non subentrano variabili esterne, nei confronti delle quali non si ha alcun potere.
Un perfezionismo che consente di raggiungere una propria soddisfazione anche quando il risultato sperato non viene raggiunto, consci di aver comunque fatto il possibile per provare ad arrivarci. Una promozione che sfuma per cause di forza maggiore, un obiettivo di vita che evapora per ragioni che non si possono influenzare e così via.

Un equilibrio sottile, riassumibile nella frase: controllo ciò che puoi, accetta il resto. Un perfezionismo, sano, infatti, dovrebbe contemplare l’accettazione. Il sapere che potrebbe arrivare il momento o la necessità di fermarsi. Se questo elemento manca, il rischio di malessere psicologico è dietro l’angolo. Non è un caso, ad esempio, se la ricerca ha dimostrato una correlazione tra perfezionismo e vissuti di stress e burnout.

Lasciare andare diventa allora la chiave. Accogliere le sbavature, contemplare l’errore, far spazio al disordine. Condizioni nelle quali si libera il proprio potenziale creativo, perché impegnati a fare piuttosto che a raggiungere. Il nostro benessere psicologico passa infatti dai tentativi, dall’assunzione di rischi, dalla ricerca dell’imprevedibilità. Un dinamismo contrapposto alla staticità di ciò che è perfetto e, proprio per questo, fertile. Uno spazio nel quale provare a stare per vedere ciò che emerge e non solo ciò che si vuole far emergere. Un cambio di prospettiva che toglie, piuttosto di aggiungere, perché come scrive Antoine de Saint-Exupéry: la perfezione si ottiene, non quando non c’è più nulla da aggiungere, ma quando non c’è più niente da togliere.

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